Non lasciate che mi dimentichino. Vorrei essere me stesso. In due frasi è concentrato tutto il percorso artistico di Kendrick Lamar, dal precedente To Pimp a Butterfly al nuovo Damn. Il jazz e il funk, il pianoforte e i sassofoni: via in un solo colpo. Lamar si è liberato di tutte quelle scelte estetiche che popolavano il suo precedente lavoro e ne avevano sancito il successo. Era tutto troppo: eccessiva la ricerca ossessiva a possibili connessioni con la musica nera degli anni settanta, alle sonorità che aveva scoperto grazie a collaboratori come Thundercat e Kamasi Washington e che aveva assimilato nel lavoro del suo vicino di casa Flying Lotus, icona del nuovo soul elettronico. Al contrario Damn, che in una settimana vanta già record di copie vendute, streaming e download in giro, ha suoni più o meno tradizionali. Costruito sui fondali di una vecchia drum machine, non è certo un disco che si distingue per l’innovazione del linguaggio musicale.

I codici sono quelli dell’hip hop degli anni ottanta, niente di meno, poco di più. Meno intellettuale del precedente, meno barocco, più immediato, più facilmente fruibile, più Kendrick Lamar. É se stesso. Quattordici pezzi, compreso un interludio iniziale, Damn., che dall’inizio del prossimo mese porterà dal vivo negli Stati uniti, ha però altre anime. Una è quella poco riuscita delle collaborazioni. Forse spaventato di non riuscire più a raggiungere un pubblico così ampio, non avendo strizzato nuovamente l’occhio all’elettronica più trendy, ha chiamato Rihanna per LOYALTY: va bene, una hit per le radio ci può pure stare. Se non fosse che poche tracce dopo compare XXX, con ospiti addirittura gli U2, niente di più distante dal rapper di Compton. Un’altra anima, questa volta perfettamente compiuta, è quella di un’evoluzione stilistica notevole.

Lamar, personaggio schivo, anticonformista, timido, poco star, è un musicista curioso, che ha studiato la storia, ha portato il suo hip hop a dialogare con le grandi voci afroamericane del passato secolo, facendo scivolare le asprezze del rap nelle dolci rime del soul. L’anima più interessante è la narrazione di un percorso spirituale, che lo ha portato a salvarsi dalla dannazione che spetta a molti della sua generazione. Quella perdizione che cita nel titolo del disco, quella di finire smarrito come la sua intera generazione. Inventa un alter ego, un allievo di arti marziali, lo chiama Kung Fu Kenn, una via di mezzo tra il samurai Forrest Witheaker di Ghost Dog e la Uma Thurman di Kill Bill. E lo usa come grimaldello per raccontare, tra la favola e la realtà, una fede che va al di là della religione. E, soprattutto, per dire a tutti. Ora vorrei essere davvero me stesso.