La riconsiderazione della cultura artistica accademica dell’Ottocento è relativamente recente, transitata soprattutto in alcune grandi mostre allestite tra Europa e America negli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Ma se la pittura romantica e i suoi protagonisti più noti venivano riabilitati grazie a connessioni ritrovate, come quella con il melodramma, la scultura si avviava a un percorso di riscoperta più tormentato.
Vista dal Novecento delle avanguardie, la «repugnante accademia» della scultura ottocentesca è stata una fabbrica di monumenti funebri senza autonomia linguistica, antitetica all’idealismo crociano, bocciata senza appello da Roberto Longhi. Le sculture accademiche sembravano svuotate dalle profonde esigenze ideali e morali che avevano caratterizzato il Neoclassicismo e, nella riproduzione pedissequa della realtà, nascondevano al di là delle superfici levigate della materia le vibrazioni e i segni dell’urgenza espressiva. Nelle opere di Bernasconi, Puttinati, persino Vela, si vedeva un ripiegamento sul mestiere, alla ricerca di una piacevolezza un po’ greve della mimesi.
Lo aveva capito Anna Maria Brizio
Eppure – lo aveva già capito Anna Maria Brizio negli anni trenta – ad alimentare la disgregazione dello stile nella scultura ottocentesca era la volontà di rappresentare imprese animate, amplificando le possibilità comunicative – quanta retorica, quanto gusto letterario… – abolendo qualunque atteggiamento elitario per rispondere alle esigenze e alle aspettative culturali di un pubblico che si allargava sempre più. Alla storia antica e alla mitologia si erano sostituite (o sovrapposte) le saghe dei popoli, la storia nazionale e la letteratura moderna; si erano modificati lo stile e i procedimenti tecnici. Erano cambiati i comportamenti, i legami e l’immagine degli artisti, protagonisti compiaciuti di travagli politici e culturali trasversali alle classi sociali. Inquadrata in questo modo, anche la scultura ottocentesca trova una sua identità, differenziandosi una volta per tutte da quella della precedente stagione neoclassica e dai suoi strascichi ancora pervasi dalla cultura dei Lumi.
La capitale della scultura italiana dell’epoca non era Roma, non era Firenze, ma Milano. L’importanza raggiunta dall’Accademia braidense con i suoi maestri e i suoi concorsi travalicava i confini del Lombardo-Veneto, mentre i grandi cantieri come la fabbrica del Duomo e, successivamente, il Cimitero Monumentale, facevano della città un centro d’attrazione secondo solamente a Parigi. Così, mentre la nuova classe dirigente lombarda era fortemente impegnata nelle cause risorgimentali, gli artisti mettevano a punto un linguaggio che, superando la crisi del classicismo, potesse dare voce alle passioni di una Nazione nascente.
In questa ricerca, i modelli della statuaria antica e quelli dei maestri più recenti come Pompeo Marchesi si arricchivano attraverso l’espressione di un virtuosismo tecnico senza confronti. Il marmo diventava legno o lana o carta o pelle, con tutti i rischi che questo descrittivismo esasperato comportava. Tale applicazione al reale era richiesta da una committenza che ricorreva alla scultura per gli ambienti interni e per i ritratti, alla ricerca di una forma che ne connotasse l’immagine sociale senza rischi, senza eccessi. Queste attenzioni, insieme a un sentimentalismo che oggi sembra facilone, da romanzo d’appendice, attraevano anche un grande pubblico determinando un successo popolare: si seduceva con effetti di meraviglia attraverso la rappresentazione di soggetti come mendicanti, malati, vedove, madri, bambini, eroi, tutti colpiti da svenimenti o aneurismi o eccitamenti, ricoperti di stoffe sgualcite e finissimi pizzi di marmo.
Con l’emersione della nuova borghesia negli ultimi quattro decenni dell’Ottocento si aprirono linee di gusto diverse e originali, quelle della scapigliatura prima e del divisionismo poi. Si svilupparono quindi temi nuovi, marcati da un intimismo delicato, familiare, perlopiù in sculture dalla dimensione contenuta, di bronzo e non solo in marmo: la mimesi non aveva più senso, le capacità tecniche nella lavorazione del marmo mutarono in altro. Così, mentre un naturalismo sempre più capriccioso avviava la scuola milanese a una crisi pressoché definitiva, alcuni scultori della nuova generazione portavano alle estreme conseguenze le espressioni più moderne dei vecchi maestri. È stato soprattutto Giuseppe Grandi il veicolo di questo cambiamento che svincolava in modo definitivo la forma, modellando le superfici con effetti di immediatezza plastica, di chiaroscuro, disgregando le masse in un’atmosfera di bruma, come Tranquillo Cremona e i pittori scapigliati facevano sulla tela. Mentre Grandi modellava e montava gli ultimi pezzi del grandioso Monumento alle Cinque Giornate, ultima impresa della propria esistenza, il giovane e promettente Medardo Rosso poteva lasciare Milano definitivamente, e con poco rammarico, per trasferirsi in una Parigi lanciata verso la contemporaneità.
Questa, a grandi spanne, è la storia che si segue nel percorso della mostra 100 anni di scultura a Milano, 1815-1915, diretta da Paola Zatti alla Galleria d’Arte Moderna di Milano fino al 3 dicembre. Un’esposizione voluta dal Comune, realizzata e prodotta dalla stessa GAM in collaborazione con le università cittadine, secondo una modalità già sperimentata a Milano in occasioni recenti. Il museo segue così civilmente la propria missione studiando, conservando e valorizzando con criterio il proprio patrimonio, sottraendosi ai baracconi sensazionalistici delle tante rassegne effimere, alle umilianti mostre di feticci, ai personalismi.
Come una bottega o una gipsoteca
Vale davvero la pena attraversare le sale del piano terra di Villa Reale: sono sobrie, luminose, impera il bianco mai sordo delle sculture che a volte sono raggruppate, come a suggerire una bottega, una gipsoteca, un deposito ordinato. Ci sono 92 statue, tra cui 64 mai esposte e restaurate per l’occasione. Alcune sono capolavori, come La preghiera del mattino ideata nell’inverno tra 1845 e 1846 dallo svizzero Vincenzo Vela: la sintonia con Hayez nella rappresentazione di una malinconia tanto intima e ideale quanto realistica ne faceva una perfetta – e allora celebre – allegoria politica; come il Masaniello di Alessandro Puttinati, un bellone neoclassico travestito da pescatore rivoltoso, con tutti i significati patriottici – e quindi censure austriache – del caso; come Il sonno dell’innocenza di Giosuè Argenti, uno dei recuperi più significativi dell’esposizione; come i modelli in gesso per il monumento ai moti del 1848 di Grandi.
Il catalogo, edito da Officina Libraria (pp. 303, euro 34,00), curato da Omar Cucciniello, Alessandro Oldani e Paola Zatti, è uno strumento indispensabile per riagganciare i protagonisti e i comprimari più o meno noti a una vicenda che ha avuto un respiro europeo. Tra saggi e schede si svelano le ragioni di una produzione che alla sua nascita ha visto i fasti del successo nelle esposizioni universali, e che lungo il Novecento ha vissuto nell’oscurità dei depositi, soffrendo le violenze dell’indifferenza. Ma se il deterioramento fisico subito da buona parte di queste sculture è una malinconica, triste conferma della sufficienza con cui sono state considerate per oltre un secolo, i restauri e l’esposizione riallacciano quella relazione virtuosa tra conservazione, tutela, ricerca e valorizzazione che si era purtroppo spezzata. Del resto, l’interesse recente sembra sollecitato da nuove sintonie: nella ripetitività delle espressioni artistiche, nella ricerca di una forma che susciti – nel bene e nel male e con una inevitabile semplificazione dei costrutti linguistici – sentimenti su vasta scala, nella massificazione del gusto e delle occasioni espositive, non c’è qualche cosa che, in questo Ottocento, sembra parlare di noi?