Un film molto politico, Leviathan di Andreï Petrovitch Zviagintsev, presentato giusto un anno fa in concorso a Cannes, dove ha ottenuto un premio alla sceneggiatura ottenendo anche un Golden globe a gennaio come migliore film straniero. Non ce lo aspettavamo dal regista noto per aver vinto nel 2003, da esordiente, un leone d’oro a Venezia con un film molto più astratto, Il Ritorno ; il suo cinema appartiene a quella tendenza spiritualista che in Russia fa capo a Tarkovski e che, molto schematicamente, si potrebbe riassumere nell’idea che l’arte ha un compito metafisico fondamentale: preparare gli uomini ad accogliere la verità. Il cinema allora deve farsi parabola. Quella che porta il nome del mostro marino Leviathan è ispirata al più filosofico dei libri del Vecchio testamento, il libro di Giobbe, dove si legge una frase riportata all’inizio del film: «Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe.».

L’azione ha luogo in una città costiera della Russia artica. Uscendo dalla proiezione, ho chiesto a tre amici russi dove fosse situata. Il primo mi ha detto: sull’asse degli Urali. Il secondo: no, si trova molto più ad est, verso la Siberia. E il terzo, dopo aver controllato su internet, ha chiuso così: è lontana. Sull’estuario di un grande fiume, in posizione elevata, una bella casa di legno domina la città. Da molte generazioni appartiene ad un uomo che ci vive con una bella donna e un figlio.

Il film comincia quando un amico avvocato di Kolia viene da Mosca per difenderlo contro il sindaco che vuole espropriarlo e costruirsi una bella villa per sé. È solo l’inizio di una serie di disgrazie in crescendo… Accanto alla casa, il mare, nero e oleoso come la pece, si scaglia con infaticabile violenza contro la scogliera. Sulla rena, nei pressi dell’estuario, la gigantesca carcassa di un cetaceo evoca il mostro marino di cui parlano i versi di Job. Da dove viene la forza mostruosa che si è scagliata contro Kolia senza pietà? Kolia non è un uomo pio, non va in chiesa, non vive cristianamente. Non può dire, con Job, perché tutto questo? Un povero prete glielo ricorda; e Kolia, che pure non vede come una tarda conversione possa rendergli quello che ha perduto, aiuta il vecchio a portare il carico di pane per i poveri. Una figura tipica del romanzo russo vuole che il credente deve passare attraverso l’ateismo, abbandonarsi al mondo, cadere in basso per, infine, essere elevato alla vera fede.

Non è il caso di Leviathan. Non è il caso di Kolia. Nessuna salvezza per lui, perché il vero Leviatano del film non è una forza divina ma un mostro tutto terrestre, dotato di due teste: il potere politico da un lato, la chiesa ortodossa dall’altro. Dal pulpito, il pope, bardato d’oro, parla alla folla dei notabili della città, venuti nelle loro berline dai vetri oscurati per celebrare la messa di natale. Il Pope evoca fatti di cronaca, ben noti anche in occidente, in cui l’opposizione a Putin si è manifestata attraverso atti contro la chiesa ortodossa. La scena fa venire in mente quella in Jimmy’s Hall di Ken Loach, in cui il prete condanna i fedeli che si sono lasciati sedurre dal comunismo.

Eppure Leviathan non potrebbe essere più distante dal simpatico manicheismo del film di Loach. La Russia di Andreï Petrovitch è universo oscuro e monocolore. Alla violenza del mare, nero e oleoso, che si infrange senza sosta sulle sue coste si oppone solo un altro liquido, trasparente ma non meno vischioso: quello che colando a fiumi dalle bottiglie di vodka, come un gorgo, risucchia le menti del popolo russo.