Alias Domenica

Levi, una scrittura omeostatica

Esiste in natura una virtù, l’omeòstasi, che permette di «conservarsi uguali a se stessi contro il brutto potere della degradazione e della morte»; a una simile capacità, «propria della materia […]

Pubblicato più di 7 anni fa

Esiste in natura una virtù, l’omeòstasi, che permette di «conservarsi uguali a se stessi contro il brutto potere della degradazione e della morte»; a una simile capacità, «propria della materia vivente», Primo Levi dedicò lo scritto da cui sono tratte le frasi citate e che deve il suo titolo – Il brutto potere, appunto – al Leopardi di A se stesso. Com’è frequente in Levi, la qualità fisica corrisponde a un connotato morale: così l’omeòstasi, da caratteristica della materia vivente, diventa anche figura della resistenza al male, della virtù di conservarsi intatti nella corruzione. Di qualità omeostatiche è dotata anche la scrittura leviana, che reagisce al caos senza arrendervisi, senza cioè adeguare al disordine il pensiero e l’espressione. «Non è vero – ha osservato Levi nel saggio Dello scrivere oscuro – che solo attraverso l’oscurità verbale si possa esprimere quell’altra oscurità di cui siamo figli, e che giace nel nostro profondo». E tuttavia quell’«altra oscurità», in cui il male affonda le sue radici, persiste ed esige lo sforzo continuo di una strenua chiarificazione. Viene in mente quanto Levi scrisse a proposito di Manzoni, da lui distante per la fede nel trascendente, ma affine per la sfiducia nell’immanente, per la coscienza del male: «la lettura con la lente è un esercizio impietoso. Guai allo scrittore che lo pratica sui suoi stessi scritti: se lo fa, si sente condannato a riscrivere senza fine ogni pagina» (Il pugno di Renzo, incluso in L’altrui mestiere). Anche Levi ha riscritto quasi senza fine il Libro della sua esperienza, non per un’oltranza sperimentale che non gli apparteneva, ma per la necessaria insistenza sui nodi etici che legano lo scrittore e il testimone. Per rendersene conto conviene leggere e rileggere le pagine delle sue Opere complete, pubblicate in due volumi a cura di Marco Belpoliti (Einaudi, pp. CIV-3392, euro 160,00; un terzo volume, di conversazioni e interviste, seguirà a breve).

Novità rispetto al 1997

L’edizione riprende e amplia la precedente (1997), uscita per Einaudi sempre a cura di Belpoliti, cui si devono i contributi capitali sullo scrittore, come il monumentale Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015). Molte le novità rispetto al ’97. Innanzitutto, viene qui finalmente riproposta la prima versione di Se questo è un uomo, uscita per De Silva nel 1947; l’antologia personale La ricerca delle radici, prima collocata in appendice, ora guadagna un posto legittimo tra le altre opere a pieno titolo leviane; la sezione delle pagine sparse si arricchisce di venti testi. Tra le nuove inclusioni ci sono poi la versione drammatica di Se questo è un uomo e quelle radiofoniche dei primi due libri dello scrittore. In appendice si leggono inoltre le note redatte da Levi per le edizioni scolastiche di Se questo è un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La chiave a stella. Infine, ai testi di argomento tecnico già pubblicati nel 1997 si aggiungono La puntinatura degli smalti Dulox e soprattutto l’edizione anastatica della sottotesi e della tesi di laurea su L’inversione di Walden. Belpoliti ha rivisto anche le note ai testi, ampliate e precisate alla luce delle acquisizioni e degli studi recenti, propri e di altri (di Domenico Scarpa, per esempio).

Non è ancora un’edizione critica, il cui allestimento richiederebbe peraltro l’esame diretto dei materiali conservati dallo scrittore, in particolare dei quaderni su cui sono stati scritti i primi libri, che non sono stati messi a disposizione. D’altra parte, nella sua Avvertenza, Belpoliti ci mette in guardia: anche quando disporremo degli scartafacci, la critica delle varianti andrà esercitata con cautela, perché il valore dell’opera di Levi non è solo estetico, ma anche e primariamente storico e morale. Quel valore, insomma, resterà sempre e comunque prevalente rispetto all’«approssimazione al “valore”» (Contini) su cui si basa la variantistica. In sé opinabile, la raccomandazione del curatore ha però una specifica importanza per l’interpretazione complessiva di Levi. Gli studi aggiornati, e spesso notevoli, che mettono in rilievo le qualità dello scrittore Levi e le sue fonti (penso alla «Lezione Primo Levi» di Francesco Cassata sulla ‘fantascienza’ leviana, o al recente dossier su «Primo Levi scrittore» nella rivista «Ticontre») non devono prescindere da una considerazione di fondo, cioè che Levi è pienamente scrittore perché testimone e – come ha osservato Mario Barenghi (Perché crediamo a Primo Levi?, 2013) – pienamente testimone perché scrittore. Pur non essendo critica, l’edizione è perciò ugualmente importante e sarà probabilmente decisiva per far compiere agli studi leviani un ulteriore passo in avanti, come già accaduto dopo l’edizione del ’97 e l’uscita nello stesso anno del numero di «Riga» sull’autore, ancora per la cura di Belpoliti. (Spiace solo che i volumi, di veste pregiata, siano anche per questo così costosi da risultare difficilmente accessibili per il pubblico ampio che meriterebbero).

La minaccia nucleare

L’aver rimesso in circolo l’opera completa permette, ad esempio, di integrare l’immagine tipica del testimone della Shoah. La «memoria dell’offesa» si rinnova infatti nella preoccupazione per il presente: la minaccia nucleare e il disastro di Chernobyl, la questione palestinese e il rischio ecologico, il caso Kappler e gli avvelenamenti da metanolo, sono tutti argomenti a cui Levi dedica più di un intervento, su La Stampa o in altre sedi (alcune anche peregrine). Così a volte sorprende, come uno straniamento, leggere le riflessioni di Levi su avvenimenti di cui anche noi abbiamo memoria, i suoi giudizi su libri o film che anche noi abbiamo visto: non solo quelli che mettono in scena esperienze concentrazionarie ma anche, per esempio, Incontri ravvicinati del terzo tipo, che sono parte del nostro immaginario.

Ma l’opera di Levi, letta o attraversata tutta insieme, rivela anche qualcosa su sé stessa. Un elemento intrinseco, che non sempre si mette a fuoco, è il suo sviluppo come incessante interrogazione sulla natura delle cose. Le reazioni chimiche, l’evoluzione e il comportamento di specie animali (reali o fantastiche), l’etimologia di nomi comuni e di persona, la ricerca di radici famigliari e culturali, l’osservazione di costumi sociali, l’analisi di dinamiche storiche sono altrettante manifestazioni della vita mutevole delle cose. E altrettante applicazioni della curiositas di Levi: «Può stupire – come ha scritto in Auschwitz, città tranquilla – che in Lager uno degli stati d’animo più frequenti fosse la curiosità. Eppure eravamo, oltre che spaventati, umiliati e disperati, anche curiosi: affamati di pane e anche di capire». Ma ogni porzione di verità raggiunta resta una conquista provvisoria, un risultato sperimentale e revocabile.

Ostile alle verità assolute

Levi si è sempre dichiarato ostile alle verità assolute, ai trionfi sbandierati della luce sulle tenebre (che possono pericolosamente scadere in dogmi e alimentare tentazioni totalitarie). Anche per questo, la chiarezza espressiva, la lucidità dell’inchiesta non appiattiscono le asperità, non riducono ma anzi specificano i paradossi, le contraddizioni, i bizzarri adattamenti esercitati nella lunga e nella breve durata. In tutti i casi, lo sforzo di ricostruire la catena razionale degli eventi non trascura l’esistenza dell’arbitrio, del pericolo, del dolore. Certo, Levi non si rassegna per questo al mistero, non si arrende all’oscurità; ma la coscienza dell’anomalia, dell’incomprensibile scarto che segna molte esistenze e fenomeni è presente in ogni sua pagina (fin dalla tesi di laurea, che proprio di anomale reazioni chimiche tratta) e ne diventa anzi il fulcro conoscitivo, e spesso la cifra stilistica. Ogni «azione umana – ha osservato Levi a proposito di Jean Améry, il filosofo suicida (1978) – contiene un duro nòcciolo di incomprensibilità».

Forse allora un altro passo critico da compiere è accettare quell’incomprensibilità, riconoscere nell’opacità conoscitiva un carattere magari recessivo ma non trascurabile nella scrittura di Levi. Certi racconti (ad esempio «Vilmy» in Vizio di forma) si svolgono come apologhi ‘vuoti’, a loro modo kafkiani, che non hanno cioè un referente univoco e non attribuiscono responsabilità nette. L’esemplarità ambigua di quegli scritti esprime una tensione destinata a rimanere inadempiuta, percepibile a volte anche nel Levi maggiore e implicata nella strenua chiarezza della sua testimonianza.

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