Flaubert sognava di scrivere un libro sul nulla, retto sulla sola necessità dello stile, «un livre sans attache extérieur, qui n’aurait presque pas de sujet» come sarebbe stato tentato molti anni più tardi da Robbe-Grillet e dai teorici del nouveau roman, nel quale l’importanza del dramma fosse ridotta al minimo. Se le avanguardie seppero fare di questa aspirazione – che nell’autore della Madame Bovary trovava bel altro contrappeso – un polo desolato, un picco brullo avvolto di cospicue motivazioni teoriche, allora l’opera di Carlo Levi sta al suo esatto antipode geografico.
Queste considerazioni mi andavano ispirando le opere scelte da Paolo Bolpagni, Daniela Fonti e Antonella Lavorgna, curatori della mostra Levi e Ragghianti che la Fondazione Ragghianti dedica a Lucca, fino al 20 marzo, al rapporto tra il critico e l’artista; ma, ancor prima della riflessione, me le suggeriva l’ordine quasi monotono, e perciò familiare, dei soggetti, e anche un po’ quel sottotitolo, Un’amicizia fra pittura, politica e letteratura, che indica in Levi quell’unità spirituale, fatta appunto d’esperienza estetica, umana e politica, che ci fu trasmessa dall’umanesimo almeno sino ai tempi di Goethe.
Sappiamo che Levi non fu immune dal fascino delle avanguardie, ma conosciamo anche la maniera con cui seppe traversarle, prendendovi, secondo la famosa frase di Molière, il suo ben dove lo trovava: così, s’egli attinge ora ai busti flessuosi, come di giunco, di Modigliani, ora alla pastosa vorticosità di Van Gogh, ora all’allappante cromatismo fauve, se coglie qualcosa da Kokoschka, qualcosa da Soutine, «la mano che traccia questa scelta – come notò Ragghianti – è ferma; non divaga ad analizzare e a provare espressioni e forme anche più notorie, circondate da clamore, come ad esempio il cubismo, il picassismo, il surrealismo». Egli, infatti, non cercava d’adeguarsi alle tendenze del momento ma soltanto a se stesso, in ciò somigliando a quei poeti che, seppur ricavavano molti elementi della versificazione da Hugo o da D’Annunzio, non aspiravano a emularne lo stile né tantomeno la poetica.
Quest’aspetto dell’arte di Levi può spiegare la ragione per cui, nell’osservare le circa cento opere esposte, non veniamo mai colti da un senso di dispersione, nemmeno innanzi a Le officine del gas, opera giovanile del 1926, o a Il padre a passeggio, del 1928, in cui gli influssi della Nuova Oggettività, che andava allora affermandosi in Germania, sembrano fermarsi alla soglia del colletto, ché già nel volto del padre si sente qualcosa di più effusivo e di più mosso, come d’una superfice d’alabastro animata dall’intimo calore di un lume.
L’influenza più forte di questo periodo fu – soprattutto per l’uso dei piani – quella di Casorati, come si vede ne La madre e la sorella (1926): eppure, anche qui, è come se una visione più personale, più emotiva e inquieta, urgesse sul guscio perfetto dell’arte casoratiana per romperlo ed evadere alla luce. Più si procede negli anni, più l’opera del pittore si fa riconoscibile e peculiare: ritratti sottili e tormentati che ricordano i gentiluomini di El Greco, paesaggi del Meridione – Il Timbone e Santarcangelo, Valle delle grotte – d’una natura agitata e dolente come veniva descritta dai grandi viaggiatori romantici del secolo precedente, e, ancora, raffigurazioni di carcasse e nature morte nelle quali l’orrore del conflitto sembra trovare, come nell’amico Montale, un proprio correlativo oggettivo. Le opere più belle sono quelle selezionate dallo stesso Ragghianti per i suoi studi sul pittore, ai quali è dedicata l’ultima sala: L’eroe cinese, Nudo dormiente, Il gufo, Piccolo Narciso, e, più di tutti, i magnifici Il carrubo crocifisso e Il carrubo Daphne, composti rispettivamente di tre e quattro opere assemblate.
Ma cosa unisce la pittura di Levi in un torno così ampio d’anni? Guardandoci intorno, notiamo insistentemente la presenza di volti e di memorie: vediamo i luoghi, i paesaggi stessi umanizzarsi, perfino il carrubo ovidianamente si antropomorfizza facendosi natura carnale e tribolante. Quando Levi aveva dipinto i suoi primi quadri, l’avanguardia ci aveva dato varie specie d’uomo: l’uomo-macchina, l’uomo-cubo, l’uomo-massa, l’uomo spirituale, l’uomo – per contrappeso – primitivo, agitato da moti preconsci, ma aveva trascurato di darci l’uomo.
Fu questo vuoto che la pittura di Levi volle colmare. Notando questo aspetto, Ragghianti scriveva: «se si volge la mente a tutta quell’arcadia di aerei disinganni e di ambigui sudori che si chiamava, certo ironicamente, avanguardia, si resta sorpresi a vedere come questa poetica di Levi, questo suo telaio morale e mentale, la sua vita vigorosa e pensosa, siano così tranquillamente e così inesorabilmente lontane da ogni forma del prevalente decadentismo contemporaneo»; e continuava col sottolineare come nel pensiero di Levi fosse «una caratteristica elencazione di limiti, per converso: misticismo, compromesso, magia, mistero, idolatria, greggia, vitalità, violenza, massa, potenza, razza, ragione, miti, provvidenza, divinizzazione, servitù, rinuncia, sacrificio, illimitatezza, indistinzione. Informi iddii», mentre «l’uomo si rivolge a se stesso. L’uomo è il luogo di tutti i rapporti. La forma del mondo è forma umana».
Queste pagine di Ragghianti possono facilmente accostarsi ad altre di Giacomo Debenedetti sul personaggio-uomo ch’egli vedeva disperso nel frammentismo vociano e nelle convulse esperienze d’inizio secolo; come Debenedetti, d’altra parte, anche Ragghianti andava scorgendo nella riscoperta della individualità umana una forma di resistenza alla barbarie nazifascista, al torvo culto della razza e dei vincoli, primigeni e indifferenziati, del sangue e della carne. D’opera in opera, notiamo il peso che, per il pittore come per il critico, ebbe l’individualità biografica, con le sue rimembranze, le sue esperienze, dalle quali viene modulata la creta dell’uomo, come quella dell’artista. Sulle pareti scorgiamo i ritratti dei suoi interlocutori, di Bazlen, di Ginzburg, di Montale, di quanti, come lui, avevano voluto opporre alla fede feroce il succo di quella famosa frase di Terenzio: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto»; giacché crisi è la perdita del senso di umanità dell’uomo. All’individuo astratto si contrappone la società astratta, al soggetto vuoto, l’oggetto indeterminato».
Queste parole le leggiamo in uno scritto che Levi inviò a Ragghianti nel 1940 e che vennero poste dal critico in apertura del suo libro Carlo Levi, pubblicato dalle edizioni U nel ’48. In mostra possiamo vederlo racchiuso in una piccola bacheca. In esso vi sono le ragioni di un sodalizio e quelle di una mostra che in filigrana tratta di qualche cosa di più vasto di un semplice legame tra un pittore e il suo critico.