Al di sotto degli eventi che catturano l’attenzione mediatica si snodano i processi più significativi che plasmano la realtà economica. Come le bolle sulla superficie dell’acqua possono essere indici di profondi rivolgimenti negli abissi sottostanti, così la comparsa di nuovi termini o la diffusione più ampia di parole precedentemente patrimonio di saperi specializzati e alieni ai profani. Nel momento in cui esse divengono importanti per il resto della società, qualcosa sta avvenendo.

Da qualche tempo compare sempre con maggiore insistenza il termine di «leverage loans».

L’espressione compare sempre più spesso nei giornali dedicati a finanza e mercati, quali il Sole 24-Ore e il Financial Times. Ma soprattutto sulla bocca di autorità regolative e di vigilanza: in un’intervista al Presidente della Fed (ottobre 2018), nel Financial Stability Report della stessa Fed (novembre 2018), nel Global Financial Stability Report del Fondo Monetario (ottobre 2018), in un articolo della Banca dei Regolamenti Internazionali, nella Financial Stability Review della Bce, ecc.

Si tratta di prestiti fatti ad imprese particolarmente indebitate. «Leverage» (trad. «a leva») è un concetto finanziario che esprime un rapporto fra debito e patrimonio posseduto; la questione è particolarmente scottante quando l’entità dei debiti si approssima o supera quella del patrimonio.

Nello specifico si classifica come «leveraged loan» un prestito a un’impresa che ha un debito superiore a quattro volte le sue entrate. Concettualmente è qualcosa di tristemente affine ai mutui subprime: prestiti a persone non in grado di restituirli, nemmeno vendendo ogni grammo delle loro proprietà.

Prodotti finanziari che fecero faville – com’è noto – in virtù di due meccanismi:

  1. il tasso d’interesse è più alto, visto che si tratta di prestiti rischiosi (tanto più alto il rischio quanto le prospettive di profitto);
  2. i suddetti mutui entravano in un giro di compra-vendi attraverso istituzioni finanziarie, banche, fondi, spezzettate e frammiste ad altri tipi di prodotti (titoli di Stato, obbligazioni di aziende, ecc.) in maniera da non essere più riconoscibili come tali. Nessuno sapeva se e quanti ne avesse in pancia, incertezza da cui si originò il panico e il crollo del mercato interbancario.

I prestiti a leva sono particolarmente usuali nel contesto di fusioni e acquisizioni aziendali. Dato che operazioni così rischiose sono diventate meno fattibili per le banche, altri intermediari finanziari sono subentrati nel business.

Poco tempo fa sul sito della Banca di Francia è comparso un articolo che si intitolava: «Si deve avere paura dei prestiti a leva negli Usa»? La risposta degli autori è un sì. Nettissimo.

Mentre la cifra dei famigerati subprime allo scoppiare della crisi viene valutata sui 1300 miliardi di dollari, i prestiti a leva vanno arrampicandosi verso i 1200 miliardi.

In un contesto in cui il debito delle imprese non-finanziarie Usa è di livello paragonabile al 2007-08: solo quello delle grandi aziende ammonterebbe al 46% dell’attuale Pil Usa (che nel 2018 secondo i dati Fmi è valutato essere 20.494 miliardi di dollari), circa 10 trilioni. Nel 2008 il debito aziendale ammontava “solo” a 6,6 trilioni (ma rispetto a un Pil di circa 1/3 più piccolo).

Aggiungendo poi le piccole e medie imprese, il totale attuale disegna un ammontare pari a un catastrofico 74% sul Pil Usa attuale.

La Ue è messa un po’ meglio, ma non da non destare preoccupazione.

Va aggiunto che i prestiti a leva sono anch’essi soggetti ai meccanismi di cartolarizzazione: vengono spezzettati e circolano nel sistema in «salsicce» composite con altri tipi di prodotti.

Risulta chiaro quindi perché nelle pubblicazioni istituzionali sopra accennate e nei giornali che se ne occupano serpeggi una preoccupazione abbastanza viva: in un contesto in cui l’indebitamento delle aziende rimane altissimo (e anche delle persone, aggiungiamo), con una crescita che non è stata fondata sull’ampliamento della domanda di base (quindi maggiori stipendi, maggiore redistribuzione) un assetto così fragile può franare con facilità se vi fosse una recessione in arrivo (e ve ne sono robuste avvisaglie) capace di dare luogo a una catena di insolvenze. Il film del 2007-08 insomma.

Ovviamente i regolatori tendono a smorzare i toni dicendo che il mercato di tali prestiti è diverso e presenta meno rischi rispetto a dieci anni fa. Ma anche allora le rassicurazioni si sprecavano.