Gianni Toti, acuto artista e poeta d’avanguardia scomparso qualche anno fa, ricordava spesso che l’etimo di «televisione» è «guardare lontano»: opportunità fornita ad un pubblico finalmente largo. Non per caso, il vecchio tubo catodico, ora soppiantato dal linguaggio numerico-digitale, fu una delle scoperte straordinarie dell’umanità. E il suo specifico, per dirla con Angelo Guglielmi, è la rappresentazione della verità, persino più della messa in onda di programmi artefatti.

Adusa alla routine delle cerimonie mediatiche, quando l’Evento Straordinario sopravviene ed incombe inatteso, la televisione generalista pubblica perde colpi.
È successo una settimana fa, a fronte della tragedia cominciata a Parigi nella redazione di Charlie Hebdo alle 11,30 di mercoledì 7 gennaio.

Purtroppo, una forma inedita di terrorismo entrata via via in scena – in cui religione e ideologia fanno corto circuito – ha travolto un Occidente impreparato, e di sovente complice con le sue guerre «democratiche» della genesi di un fondamentalismo estremo. Non per caso la libertà di satira, il genere meno rassicurante per ogni cultura di potere, è stata la vittima designata di omicidi perpretati in nome di un Dio considerato intoccabile.

Quanto è accaduto ci deve far riflettere sulla crisi culturale in un pianeta globale sì, ma privo di uno Statuto comune dell’essere umano. Va sottolineato che le morti francesi non sono diverse da quelle della Nigeria o dei luoghi dimenticati del mappamondo, ma il dramma è arrivato nella Metropoli e non pare affatto un fenomeno isolato. Così, è stato giustamente osservato che non pochi leader della prima fila della manifestazione di Parigi hanno gravi peccati sul groppone, proprio in materia di diritto all’informazione.

Insomma, compito primario del servizio pubblico è di far vivere minuto per minuto gli accadimenti, bagnandosi fino in fondo nella realtà. È qui l’essenza del «pubblico»: la garanzia di «vedere lontano», attraverso le modalità gratuite della diffusione. La «cittadinanza» mediatica.

Perché la Rai in quelle ore ha lasciato solo alla benemerita radio (ingiustamente sottovalutata) e alla rete «all news» il dovere fondativo del servizio pubblico? Ne ha detto giustamente il Fatto Quotidiano. Era così difficile fare il «simulcast», vale a dire connettere le trasmissioni non stop di Rainews con uno dei canali televisivi generalisti? Niente da dire sulla testata specializzata, premiata da un ascolto di quasi cinque volte superiore alla media giornaliera. Tuttavia, il consumo televisivo ha le sue regole: l’eccezionale 2,23% di Rainews non può competere con platee dieci volte maggiori.

La7 è stata bene in campo, a dimostrazione che anche con risorse inferiori è possibile l’offerta non stop del tempo reale. E neppure sono stati un riequilibrio gli «speciali» della sera del giorno, ormai tardivi.

La commissione parlamentare di vigilanza sta discutendo di una risoluzione sull’informazione. Si dirà che la priorità della Rai è fotografare in movimento l’attualità, trasformando le informazioni in un «bene comune»? Sergio Zavoli, nell’intervento svolto nell’aula del Senato la sera di lunedì 12, ha citato l’affermazione di Einaudi «conoscere per deliberare». E informare è conoscere.

Al riguardo, la Rai non potrebbe varare sul nuovo terrorismo qualcosa che riprenda lo stile della «Notte della Repubblica», il programma-modello proprio di Zavoli? Per uscire da conformismi ed insidiosi pensieri unici.