Successore di Alain Touraine alla guida del Centro d’analisi e d’intervento sociologico di Parigi, docente all’École des hautes études, Farhad Khosrokhavar è uno dei maggiori studiosi francesi dei fenomeni legati alla radicalizzazione in senso jihadista di molti giovani. Tema a cui ha dedicato molte opere, tra cui Radicalisation (2014), Prisons de France (2014) e Le jihadisme (2015).

 

Farhad Khosrokhavar

Dopo Londra lo jihadismo cerca di intervenire nelle presidenziali francesi, prima con un attentato sventato a Marsiglia quindi con un attacco nel cuore di Parigi. È l’eco sinistra della fine dello Stato Islamico o c’è dell’altro?

Si deve tener presente che esiste una sorta di esercito di riserva dello jihadismo europeo la cui azione non si esaurirà con la fine dello Stato Islamico. In questo senso, l’Europa va verso uno jihadismo post-Daesh. Gli ultimi attentati compiuti, o sventati, possono essere letti come un’ultima resistenza simbolica con la quale gli affiliati a Daesh passano all’azione sulla scena europea per marcare la continuità simbolica di una lotta che considerano senza fine, ma che perlomeno nella forza del sedicente Stato Islamico di Siria e Iraq volge al termine.

Ma nel caso delle elezioni di domani, queste azioni non intendono favorire l’affermazione del Front National?

È difficile dire quanto ciò che sta accadendo sia parte di una strategia precisa, si deve considerare che giocano anche elementi insondabili come lo stato psicologico dei protagonisti, i recenti attentati all’aeroporto di Orly e quello di Londra hanno indicato come i responsabili fossero con ogni probabilità degli individui isolati non legati a nessuna organizzazione. Ma certo, tutto questo non può che favorire la logica di chi, come l’estrema destra, ritiene che il paese sia in guerra e che per questo debba fare un passo indietro rispetto alla sua democrazia.

Ci sono diverse interpretazioni del fenomeno della radicalizzazione dei giovani europei, quale predilige?

Credo ci siano vari elementi, prima di tutto di natura sociale e culturale, che concorrono a definire ciò che chiamiamo un radicalizzato, ma in linea generale un ruolo di primo piano in ciò a cui stiamo assistendo lo gioca il tramonto delle utopie nelle nostre società e il modo in cui l’Islam radicale ne ha invece definito una transnazionale di tipo nuovo.

Quale è il percorso personale che conduce verso il jihadismo?

Fino all’attentato a Charlie Hebdo del 2015, la maggior parte dei giovani radicalizzati in Francia veniva dalle banlieue. Si trattava perlopiù di persone cresciute nell’esclusione economica e sociale e che cercavano di legittimare la loro guerra contro la società incarnandola nell’adesione all’Islam radicale. Questi giovani, cresciuti prevalentemente in famiglie povere dell’immigrazione, avevano conosciuto un percorso simile fatto di precarietà e di appartenenza al circuito della piccola criminalità, di passaggio per riformatori e prigioni, dove spesso hanno incontrato per la prima volta i predicatori jihadisti, in grado di trasformare il senso di umiliazione e il disprezzo di sé in odio e in senso di superiorità morale verso il mondo circostante. L’altro modello di adesione è apparso soprattutto dopo l’inizio della guerra civile in Siria e il definirsi dell’orizzonte dello Stato Islamico e ha riguardato la radicalizzazione di giovani spesso appartenenti al ceto medio, che in molti casi non sono cresciuti in famiglie musulmane ma si sono convertiti all’Islam e che, a differenza dei primi, non si considerano come delle «vittime». Ciò che li ha spinti verso gli jihadisti non c’entra in questo caso con l’odio per la società, quanto piuttosto con un malessere identitario e con la ricerca di autorità, di un quadro normativo e morale esplicito che la religione nella sua accezione più radicale sembra offrirgli in netta contrapposizione all’ambiente secolarizzato che li circonda. Quale che sia la loro origine, tutti gli affiliati agli ambienti jihadisti hanno poi rafforzato i loro legami con i gruppi organizzati recandosi negli ultimi anni in Siria come in Iraq.

Diversi i modelli di radicalizzazione come anche i «luoghi» in cui avviene?

Senza dubbio. Se ne possono indicare soprattutto due: la rete e le prigioni. I giovani francesi si radicalizzano soprattutto ispirandosi a ciò che vedono su blog e siti jihadisti e di cui condividono il commento con pochi amici, spesso per strada più che nelle moschee, il cui ruolo nella formazione dei militanti estremisti ha continuato a diminuire negli ultimi anni. L’altra «palestra» principale sono le carceri dove la popolazione musulmana è sovrarappresentata rispetto al resto della società: anche se non esistono statistiche precise si calcola che tra il 40 e il 60% del totale dei detenuti sia infatti di fede islamica, mentre oltre due terzi viene da famiglie di origine immigrata. L’ambiente carcerario, per la promiscuità che vi regna e per la serie di leggi non scritte che ne regolano la vita quotidiana, è del resto un luogo più che propizio al formarsi di reti criminali o jihadiste. La gran parte di coloro che sono poi passati in azione in Francia hanno fatto il primo incontro con lo jihadismo durante un periodo di detenzione. Non si deve dimenticare come la prigione sia un luogo in cui l’odio si accumula. C’è un prima e un dopo per chi vive questa esperienza, si apprende a detestare gli altri, a covare nuova violenza. Quella violenza a cui gli jihadisti offrono un obiettivo e una legittimazione.