«Per quanto riguarda le nostre vecchie terre di Europa è evidente che difficilmente la libertà potrebbe essere efficacemente difesa in una condizione di divisione, di polverizzazione di stati, e che essa abbisogna, per essere forte e per crescere, di una maggiore unità, che non può trovarsi se non attraverso una forma di federazione europea» (Carlo Levi, La paura è il contrario della libertà).

In questo manoscritto inedito datato 18 marzo 1948, tirato fuori da un cassetto dal sindaco di Aliano dove l’intellettuale antifascista torinese fu mandato al confino e pubblicato a cura della Regione Basilicata, Carlo Levi aggiorna le sue teorie sul rapporto tra la paura e i totalitarismi alla luce della Resistenza. Un tema già affrontato nel saggio Paura della libertà, scritto in Francia alla vigilia dell’invasione tedesca, e di cui questo testo costituisce una sorta di appendice post-bellica.

È la paura collettiva, di massa, quella che per Levi rappresenta il contrario della libertà, che «ha permesso la nascita del fascismo, del nazismo e di tutte le altre più o meno individuate tirannie». La Resistenza, invece, è stata «un’affermazione dei valori dell’autonomia, la lotta contro il terrore». Ma per Levi è durata poco: la paura, che sembrava scacciata dalla lotta partigiana e vinta dalla libertà, già nel primo dopoguerra ritornava «nei titoli dei giornali»: “Paura dei colpi di stato”, “Pericolo del comunismo”, etc. Per questo la nascita di una federazione europea sembrò allo scrittore di Cristo si è fermato a Eboli «la via della libertà e della liberazione dal terrore».