Incatenati a uno Zar, a un Sultano e alla nostra ipocrisia. L’incontro Putin-Erdogan è un altro anello della catena degli orrori bellici e della nostra ipocrisia mediatica, come la definisce sul manifesto Tommaso Di Francesco. Il cessate il fuoco da mezzanotte a Idlib salva la faccia di un Sultano che si piega allo Zar, cioè al suo gas che ha fatto della Turchia il maggiore hub energetico del Mediterraneo, l’unico vero traguardo strategico ottenuto da Ankara nella sua tattica del pendolo tra Est e Ovest.

Erdogan si è presentato da Putin militarmente più credibile – nella battaglia di Idlib le sue forze insieme ai jihadisti stanno resistendo – ma politicamente è vulnerabile, sia all’esterno che all’interno. Soprattutto non ha poco da dare in cambio a Putin. Prima aveva ceduto Aleppo a Mosca (e Damasco) in cambio dei curdi siriani. Ora il Cremlino vuole Idlib e che prenda in custodia, oltre ad altri 3,5 milioni di rifugiati, migliaia di profughi siriani di cui Damasco intende liberarsi. Il riferimento nell’accordo di Mosca al ritorno dei profughi è quasi accademico.

I profughi sono l’intollerabile misura demografica della sua sconfitta, mitigata soltanto dai territori strappati al Rojava dei curdi. L’ondata di rifugiati che Erdogan spinge con le forze speciali verso la Grecia è soltanto una parte del ricatto all’Europa: è la sua vendetta per la debàcle siriana che dovremmo pagare anche noi.

Gli europei stanno con la Grecia e sono disposti a pagare perché si tenga i profughi ma non a dargli un sostegno politico o militare. Gli Stati Uniti, altra potenza occupante, hanno più o meno la stessa posizione anche se Washington ha mandato due inviati in territorio siriano occupato dalla Turchia, come già fece Obama con la passeggiata dell’ambasciatore Ford tra i ribelli di Hama nel luglio 2011. I qaidisti di Idlib insieme ai turchi sono schierati contro Damasco e Mosca, quindi Washington strizza l’occhio anche ai peggiori terroristi, come ha già fatto con i talebani in Afghanistan e come faceva un tempo con i mujaheddin che combattevano l’Unione sovietica a Kabul: Trump non vuole interventi militari ma tiene il colpo in canna, come è avvenuto con il generale Soleimani, per portare a casa qualche voto in più.

Erdogan è pur sempre colui che ha sbeffeggiato la Nato e gli Usa, che ha acquistato gli S-400 dai russi, che ha chiuso e aperto come voleva la base americana di Incirlik, che ha massacrato i curdi siriani alleati dell’Occidente contro l’Isis, senza che per altro nessuno li difendesse e chissà cosa sarebbe accaduto se dopo il ritiro degli americani non fosse arrivato Putin. E oltre ad appoggiare i jihadisti in Siria, Ankara li ha spostati in Libia spingendo il traballante Sarraj a firmare un documento sulle risorse nel Mediterraneo che non ha nessuna base giuridica.

Madamina il catalogo è questo. Ed è lungo. Come del resto lo è quello delle complicità europee e americane con Erdogan, quando si incoraggiava l’afflusso di jihadisti in Siria pur di abbattere un regime alleato dell’Iran: questa «guerra mondiale a pezzi», come l’ha chiamata il Papa, è stata quasi subito una guerra per procura.

Erdogan occupa un vasto territorio nel Nord della Siria in gran parte strappato ai curdi del Rojava e del cantone di Afrin, senza essere stato invitato (come Russia e Iran) e senza l’autorizzazione di alcuna risoluzione dell’Onu: qui combatte fianco a fianco con le milizie affiliate ad Al Qaida, che oggi a Idlib godono della sua copertura con i droni e i missili terra-aria e hanno inflitto perdite pesanti – esagerate dalla propaganda di Ankara – alle truppe di Assad.

Ma l’unico amico di un turco è soltanto un altro turco, dice un vecchio detto e vale pure per Erdogan. Oggi Assad, che ieri non escludeva di riallacciare i rapporti con Ankara, è rientrato nei ranghi della Lega Araba e viene ormai riconosciuto da gran parte dei Paesi della regione, persino dal generale Haftar, allineato all’Egitto e alle monarchie del Golfo. A Erdogan prudono le mani ma è possibile che sia costretto a perdere, o a non vincere, sia la partita siriana che quella libica. Per queste guerre in parlamento c’è appena stata una rissa gigantesca e l’opposizione, dopo averlo sconfitto alle amministrative di Istanbul e Ankara, sta riprendendo piede mentre la crisi economica fa il resto.

Il fronte dove Erdogan può «vincere» è quello europeo dove usa l’arma dei profughi. Vorrebbe farsi pagare per loro ma anche per i costi della guerra. In gioco non c’è soltanto il suo cinismo: la colpa è anche dell’Europa che risponde con un’inflessibile chiusura dei confini. Gli europei in questi anni – dopo l’ultima grande ondata migratoria del 2015 (un milione di persone) – avevano tutto il tempo per trovare risposte alternative sia con l’apertura di canali di ingresso regolari che con la riforma del diritto d’asilo. Nulla è stato fatto, riempiendo di profughi la polveriera dei Balcani. Dire che siamo sorpresi dalla fuga da Idlib di oltre 900 mila persone e dalla pressione di Erdogan sulla Grecia dove i profughi vengono bastonati e uccisi è soltanto un’ipocrisia. È qui che l’Europa sta morendo davvero.