«Dalle elezioni del 25 maggio temo che sortirà un governo di larghe intese europeo», afferma preoccupato Elmar Altvater, 75 anni, professore emerito di scienze politiche della berlinese Freie Universität, uno degli intellettuali di maggior rilievo della sinistra tedesca. «E il motivo è la polarizzazione tra le forze che propugnano un ampliamento dei compiti dell’Unione europea e gli euroscettici. Il forte conflitto che si creerà a Strasburgo con gli euroscettici – argomenta Altvater – indurrà popolari e socialisti a fare come qui da noi in Germania, cioè a mettersi d’accordo». 

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In tale contesto, quale potrebbe essere il ruolo delle forze che sostengono la candidatura di Alexis Tsipras alla guida della Commissione Ue? Parliamo della tedesca Linke, del francese Front de Gauche e dell’italiana L’Altra Europa… 

Innanzitutto mi lasci dire che mi auguro abbiano un buon risultato. Anche perché quanto più forte sarà il loro gruppo parlamentare, tanto maggiore sarà l’efficacia nel contrastare l’austerity e, in generale, l’impostazione neoliberista delle politiche europee. Bisogna regolare i mercati finanziari per cercare di minimizzare il potenziale della crisi, e dall’altro si deve intervenire per il ritiro delle misure di austerity: sono due facce della stessa medaglia. Sappiamo già, tuttavia, che la sinistra «pro-Tsipras» da sola non sarà abbastanza forte: per incidere, dovrà agire in coalizione.

Pensa che ci sia spazio per un’alleanza con il Partito del socialismo europeo (Pse) del candidato presidente Martin Schulz?

Il problema è che la socialdemocrazia non è in grado di trovare accordi di fondo con la Sinistra europea (Se). Perché non lo vuole. Intendiamoci: su alcuni punti specifici può accadere. Ne è un esempio proprio la Germania: la proposta di salario minimo legale era inizialmente una rivendicazione della Linke e successivamente è stata fatta propria dai socialdemocratici della Spd (e dai sindacati). In casi come questo, i compromessi sono possibili. Credo invece sia molto difficile che si arrivi ad un accordo stabile e programmatico tra la Se e il Pse in Europa. Sicuramente, la Spd – che è il socio di maggioranza del Pse – non va in questa direzione, e negli altri paesi europei la situazione non mi sembra differente.

A proposito di Spd: nei primi mesi di grosse Koalition con i democristiani (Cdu/Csu), il partito di Schulz ha portato a casa il salario minimo legale a 8,5 euro all’ora, rivendicato come un successo. Secondo lei è davvero la misura che riuscirà ad abbassare il gap di competitività tra i Paesi europei, come dicono i socialdemocratici?

La strada giusta è certamente quella del salario minimo, ma deve essere unico per tutti: non ci possono essere eccezioni (ad esempio per i disoccupati di lunga durata, ndr), come invece prevede la legge proposta dal governo tedesco. Bisognerebbe suggerire ai socialdemocratici di rileggere Marx: nel capitolo ottavo del primo volume del Capitale si trova un’analisi superba sulla necessità di avere un limite senza eccezioni alle ore della giornata lavorativa stabilito per legge, perché altrimenti la concorrenza spazzerebbe via qualsiasi argine. Ecco: lo stesso vale anche per il salario. Bisogna stabilire un minimo per tutti e non ci possono essere eccezioni, perché altrimenti avremo un bel salario minimo uguale per tutti in teoria, ma la realtà invece sarà ben diversa. In questo momento la Spd (che controlla il ministero del lavoro, ndr) sta accettando troppe eccezioni: sono così tanti compromessi da rendere quella misura, potenzialmente molto positiva, quasi del tutto inefficace.

Torniamo all’Europa. Nel dibattito internazionale, a sinistra, si discute apertamente della possibilità che i Paesi della «periferia in crisi» usino strategicamente la minaccia di uscire dall’euro per ottenere dalla Germania la fine dell’austerità. Il ragionamento si fonda sul fatto che per la Repubblica federale la fine della moneta unica avrebbe conseguenze molto negative. Lei cosa ne pensa?

È una posizione che mi lascia molto perplesso. Che cosa guadagnerebbero la sinistra italiana, greca o spagnola se i loro paesi uscissero dall’euro? Nulla, io credo. Sarebbero da soli con le loro monete nazionali: nessun problema sarebbe risolto e non ci sarebbe più l’Europa. Certamente si può sostenere che questa Ue rappresenti il blocco che impedisce una politica realmente autonoma negli stati membri: è vero. Molti, però, sulla base di questa tesi sostengono la fine dell’euro. Ma sposando questa idea bisognerebbe immaginare strategie su come si possa, a livello nazionale, realizzare politiche realmente autonome e di sinistra. E non mi sembra di vedere proposte realizzabili. Su questo si sono espresse persone molto diverse in modi molto simili, cito ad esempio Toni Negri ed Etienne Balibar: dobbiamo immaginare strategie per rendere l’Europa il luogo del conflitto di classe, non gli stati nazione. Questo mi sembra sia il più importante compito della sinistra: guardare al conflitto di classe in Europa. Sono passati quasi 25 anni dal trattato di Maastricht e non si può tornare indietro, valgono le parole di Gorbaciov: “Chi arriva tardi viene punito dalla vita”. Questo significa che la sinistra deve definire l’Europa come terreno del conflitto di classe: tutta la sinistra europea, insieme, deve elaborare strategie per rendere questo possibile. Minacciare il ritorno alla dracma o alla lira non mi sembra che porterebbe ad alcun risultato progressivo.

In prospettiva, qual è il ruolo della Germania nella crisi europea? C’è la possibilità che sia la Germania il Paese dove si realizzerà un vero cambiamento politico e culturale contro la politica dell’austerità?

A mio giudizio no, non verrà dalla Germania questo cambiamento. Perché l’austerity qui sente molto poco, siamo in una situazione abbastanza confortevole. Questa è la ragione della rielezione di Merkel. La crisi del sud Europa non viene avvertita dal cittadino comune. Dai tempi delle riforme neoliberali del governo Schröder (1998-2005), la Germania ha abbassato i propri salari diventando più competitiva rispetto ai concorrenti europei. Se la situazione non cambia, l’economia tedesca ha la tendenza a crescere rispetto a quelle degli altri paesi europei, ed essendoci una forte interrelazione tra le economie continentali, questo benessere si rifletterà negativamente sui paesi in crisi. Il problema dell’Ue è proprio che ci sono forti vincoli economici senza adeguati meccanismi di aggiustamento, che sono principalmente informali. Le differenze sono diventate molto forti: al contrario della Germania, gli stati in crisi non possono indebitarsi se non a tassi molto alti, e queste differenze portano a tensioni estreme. È una visione di breve periodo pensare all’uscita dall’euro, perché le tensioni non sparirebbero, proprio a causa del forte gap di competitività. Si sono create differenze nelle economie reali che richiedono una compensazione nelle politiche dell’Ue: questo dovrebbe essere il punto cardine di una nuova politica europea.