Di fronte alle vittime che continuano ad aumentare, ai più di 700 cadaveri di bambini che solo quest’anno sono morti per avere quel futuro al quale hanno diritto.

Di fronte all’intervento della Turchia di Erdogan che, su incarico dell’Ue (al prezzo di 3 miliardi all’anno) ferma, anche ricorrendo al carcere e alle violenze, i profughi e respinge i siriani in Siria, di nuovo sotto le bombe.

Di fronte all’inverno che incombe, i rappresentanti europei, riunitisi in Consiglio giovedì e venerdì, continuano a parlare lo stesso linguaggio di morte che hanno usato nelle scelte concrete di questi mesi. Il salvataggio è scomparso dal loro vocabolario, le parole chiave ora sono respingimenti, controllo, esternalizzazione ed ulteriore chiusura delle frontiere.

Una recente proposta, presentata meno di una settimana fa, prevede altre guardie di frontiera e strumenti per controllare i confini europei e impedire ai profughi di arrivare sul territorio dell’Ue a chiedere protezione. A differenza del passato, le nuove guardie di frontiera potranno intervenire anche senza che lo stato membro ne faccia richiesta. Un modo per cercare di isolare chi non vuole fare del proprio paese un territorio cinto da filo spinato.

Più guardie di frontiera, dunque, per alimentare l’economia di guerra e rafforzare l’immagine dell’invasione, sperando così di fermare il consenso popolare verso la destra xenofoba, che in questo modo diventa forza di governo nei fatti.

Siamo di fronte a guerra contro chi è costretto a lasciare la sua casa e viene a bussare alle nostre porte. Un numero che secondo l’Unhcr nel 2015 è in continua crescita e che richiederebbe con urgenza il ricorso alla direttiva europea 55/2001 per la straordinaria emergenza di fronte alla quale ci troviamo e che assume sempre più il carattere di una vera tragedia umanitaria. Invece l’Ue parla ancora una volta il linguaggio di Orban, al di là dei distinguo e delle belle parole.

I migranti che hanno manifestato giovedì a Lampedusa, chiedendo che non gli vengano prese le impronte e che siano lasciati liberi di continuare il loro viaggio, ci fanno capire, con i fatti, gli enormi limiti dell’approccio hotspot. Questo sistema continua ad alimentare la divisione tra buoni e cattivi, tra chi ha diritto alla protezione e chi no. Mentre si respingono profughi di guerra.

Questo sistema obbliga all’irregolarità e destina all’esclusione sociale centinaia di migranti, respinti arbitrariamente dal sistema d’asilo sulla sola base della nazionalità, in violazione della legge vigente che prevede l’analisi di ogni singolo caso.

Questa logica si sposa con quella di firmare accordi con i paesi di origine per facilitare l’espulsione – oggi l’Italia espelle solo verso paesi con cui ha firmato accordi di riamissione, Nigeria, Egitto, Tunisia – ma anche con i paesi di transito. Quella dell’esternalizzazione resta una delle priorità nei discorsi europei, nonostante il Vertice della Valletta abbia dimostrato le giuste resistenze dei paesi africani. Le trattative con il Niger, per trasformare il centro d’Agadez in un hotspot prima delle frontiere europee, restano una priorità per l’Italia. L’Europa lavora su più aree geografiche contemporaneamente, dal Marocco alla Turchia, dal Niger alla Libia, cercando la stabilizzazione politica perché ritornino ad essere i gendarmi dell’Europa.

*Filippo Miraglia è vicepresidente nazionale Arci