«Battersi contro la tortura significa lottare contro l’occupazione», dice al manifesto la giovane israeliana Alona Korman, responsabile ricerca e advocacy del Pcati, un Comitato pubblico contro la tortura in Israele, dove ha sede. Con lei è venuto in Italia Issam Younis, direttore del Centro Al Mezan per i diritti dell’uomo, basato a Gaza, in Palestina. Due rappresentanti della delegazione della Rete euromediterranea per i diritti umani che, dal ‘97, riunisce 80 organizzazioni di 30 paesi euromediterranei e ha costituito gruppi di lavoro su diverse questioni cruciali per la regione. Sono venuti in Italia su invito dell’Arci: per chiedere all’Europa un’assunzione di responsabilità nel conflitto israelo-palestinese, sempre più asimmetrico con il dilagare dell’occupazione israeliana.
«Dal 2001 al 2009 – spiega Korman – abbiamo presentato 700 denunce contro l’Agenzia di sicurezza israeliana e contro ufficiali di polizia e dell’esercito. La tortura è diffusa, in Israele, e raggiunte picchi più alti nei momenti di crisi, in presenza di manifestazioni o proteste. Le vittime sono soprattutto uomini adulti, ma abbiamo denunciato anche violenze sulle donne e sui minori. In base a quanto stabilito dalla convenzione Onu, definiamo tortura ogni azione compiuta da funzionari pubblici per provocare dolore fisico o mentale alfine di ottenere informazioni o per discriminazione.Una definizione, quindi, molto politica». Un impegno fuori dal recinto, in una società sempre più avvitata nell’ossessione securitaria e in cui il problema dell’occupazione non compare neanche nelle proteste dei giovani di Occupy. Sono lontani i tempi d’oro della disobbedienza, in Israele. Su chi far leva allora per costruire una speranza e per rendere efficace l’azione di Alona? «Lottare contro la tortura – dice ancora Korman – significa lottare contro l’occupazione. Le convenzioni delle Nazioni unite obbligano ad aprire indagini sulle violazioni e a smascherare le politiche per la sicurezza in nome della quale si distruggono case, si espellono gli abitanti, si creano altri insediamenti. Cerchiamo così di rendere la vita difficile allo stato perché trovi altre soluzioni. Purtroppo stiamo diventando una società sempre più chiusa, sempre più simile a quella americana, in cui i giovani pensano solo a lavorare e a consumare. Anche chi sa di occupare ad Haifa una casa che era dei palestinesi non si chiede più se Israele è uno stato legittimo o no e nessuno lascerebbe le case per farli tornare».
Quale futuro si profila allora per i palestinesi? Cos’è venuto a chiedere all’Europa, Issam Younis? «Ci aspettiamo – dice il direttore di Al Mezan – che l’Europa faccia finalmente quel che non ha fatto finora. In vent’anni di trattative, col pretesto di dare una chance alla pace ha lasciato proseguire le occupazioni selvagge, altre confische di terre, crimini di guerra mai puniti durante l’attacco a Gaza del 2008 e del 2011. Nessun israeliano è stato deferito alla Corte di giustizia come per la Bosnia. L’Europa ha il potere di sanzionare Israle, e non lo fa, lasciandogli la convinzione di essere sopra la legge e ritardando sine die la possibilità di una soluzione». Come si vive adesso a Gaza dopo i cambiamenti intervenuti in Egitto e la crisi siriana? « È come se si fosse fatto un salto all’indietro, una regressione dello sviluppo, se contate che l’85% delle persone dipende dagli aiuti umanitari. Quando Israele ha imposto la chiusura dei canali per l’Egitto, l’unico modo era andare a sud, i tunnel erano essenziali per continuare a vivere e mandare viveri laggiù. Così quando Hamas ha vinto le elezioni, alcuni paesi hanno imposto la chiusura dei canali per far sì che la gente dicesse “È per colpa di Hamas”, come prima dicevano “è colpa di Arafat”, e non dell’occupazione. L’Europa si limita a fare donazioni, e finisce per finanziare l’occupazione. Si mandano fiori e pomodori ad Amsterdam, ma non nella West Bank, che è solo a un’ora. Nel 2005, quando Israele si è ritirato da Gaza, l’idea era di arrivare alla distruzione dei due stati nella mente delle persone, dividere la West Bank (in cui formare sempre nuovi cantoni) da una Gaza “maledetta”, spinta verso l’Egitto. Finché Israele rimane il gendarme degli Usa nella regione, non ci sarà soluzione. Sono contrario alla proposta di Kerry di riprendere trattative che servono solo a tenere al palo i palestinesi».