L’ultimo Documento di Economia e Finanza, il primo dell’era Draghi, è uscito il 15 aprile, sostituendo l’ultimo dell’era Conte del 5 ottobre 2020. Insieme ai dettagli del Recovery Plan, si tratta dell’annuncio del quadro di politica economica del prossimo triennio. Il governo Conte lasciava nei suoi piani due promesse. La prima, quella di una forte disponibilità a sostenere l’economia alle prese con il dramma della pandemia. Per il 2020 era previsto un aumento del deficit su Pil dall’1,6% del 2019 al 10,8%.

L’aumento c’è stato, ci dicono i dati contenuti nel Def del governo Draghi, ma meno di quanto promesso: il deficit 2020 si è fermato al 9,5%, 1,3% in meno (più di 20 miliardi in meno) di quanto autorizzato anche dall’Europa. La seconda promessa, di portare l’economia italiana a crescere del 6% nel 2021, è oggi stata ridimensionata al 4,5%, un calo significativo. In un certo senso è ovvio che tale risultato non possa essere addebitato al precedente Governo, in quanto la Nota di aggiornamento di ottobre non poteva tenere conto dei peggioramenti autunnali della pandemia. Ma è certo che l’economia italiana oggi sarebbe in condizioni migliori se avessimo avuto maggiore capacità e coraggio di spendere quanto l’Europa ci aveva consentito di fare.

Nel piano di Conte era contenuta anche una paradossale e drammatica incongruenza: a fronte degli aiuti provenienti dall’Europa con il Recovery era prevista un’austerità interna a venire di proporzioni gigantesche. Dal deficit 2020 stimato allora al 10,8% l’ex-premier aveva garantito all’Europa di riportare il deficit su Pil italiano al 3% entro il 2023, annullando il disavanzo primario (che non considera le spese per interessi). In termini di deficit strutturale su Pil si prometteva una riduzione del 2,9%, dal 6,4% al 3,5% di Pil. Insomma una restrizione fiscale (maggiori tasse, minori spese) volontaria di quasi 60 miliardi di euro, capace di cancellare i benefici del Recovery.

Era grande dunque l’attesa sulle azioni di Draghi e su come avrebbe rimediato a questa assurda incongruenza. Purtroppo il nuovo Def suggerisce il contrario: questo Governo promette di essere ancora più restrittivo del precedente. Leggere per credere: il deficit 2021 è sì previsto essere pari all’11,8% del Pil (a fronte dei sostegni inevitabili “Conte-Draghi” per la seconda ondata) ma è stato anche “obbligato” a scendere in 3 anni, nel 2024, al 3,4%, una riduzione cioè dell’8,4% (a fronte del 7,8% di Conte). In termini di riduzione del deficit strutturale, l’enfasi austera è ancora più significativa rispetto al precedente Governo: questo viene ridotto dal 9,3% al 3,8%, del 5,5% del PIL, contro il 2,9% del governo Conte. Con una mano si dà, con l’altra si toglie, ancora di più.

C’è un ulteriore punto che colpisce nel Def di Draghi: l’intenzione per l’anno prossimo di ridurre immediatamente il deficit su Pil in maniera eclatante, dall’11,8% al 5,9%, quasi 5 punti percentuali (3,9% in termini di deficit strutturale!). Un numero clamoroso se si pensa che l’economia italiana il prossimo anno, sperabilmente fuori dalla pandemia, avrà bisogno di un forte aiuto. Ma clamoroso anche perché l’Unione europea stessa ci aveva permesso di “sforare” anche per il 2022: perché non avvantaggiarsene?

Sono due le conclusioni da trarre da questo quadro così austero. Come con il governo Monti esattamente 10 anni fa, questo governo ha rispetto agli altri un capitale di reputazione europea che permetteva di essere speso a beneficio del Paese. Margini da usare per sostituire i ristori con investimenti pubblici addizionali finanziati in deficit che, come confermano analisi della Banca d’Italia, se ben usati abbattono – e non aumentano – il debito pubblico italiano su Pil, per la crescita che sanno stimolare. Non sono stati nuovamente sfruttati e questa è una occasione persa. E a chi obietterà che sono stati previsti 30 miliardi di fondi complementari al Recovery per investimenti, si obietterà a nostra volta che rimarranno, come sempre è accaduto in questi 10 anni di austerità, nel cassetto, perché bloccati dalle esigenze di rientrare del deficit, come promesso all’Europa.

Secondo: si conferma, al di là degli inevitabili sostegni di breve periodo, un quadro di condizionamenti europei che ribadisce la struttura continentale della politica fiscale, sempre legata all’assurdo Fiscal Compact. Tutto ciò spiega l’enorme differenza di enfasi con la nuova amministrazione Biden che, negli Stati Uniti, intende garantire il ritorno all’ottimismo con una manovra veramente espansiva e non austera, che venga in soccorso soprattutto dei più deboli e dei più in difficoltà. Eppure come con Roosevelt nel 1930, in una politica fiscale così espansiva, non c’è solo economia: c’è anche la voglia di spazzare quelle minacce alla democrazia che nascono quando uno Stato, come diceva Keynes, non mette al centro la questione della giustizia sociale, ovvero quello “spirito altruistico, di entusiasmo ed amore per l’uomo comune”. Una minaccia che l’Europa e l’Italia nuovamente mostrano di sottostimare.