Diversi sono gli spinosi paradossi che la crisi catalana ha messo in moto. Il governo di Madrid sbandiera ora la scarsa affluenza alle urne «clandestine» del referendum per l’indipendenza come un dato politico, laddove si è prodigato nel renderlo un dato militare. Se la consultazione non si fosse svolta, come invece è accaduto, tra le maglie della violenza dispiegata di una forza di occupazione (inevitabilmente percepita da tutti come tale), solo allora il termometro politico avrebbe potuto indicare la temperatura reale della Catalogna (probabilmente nessuna febbre secessionista). Ora non si può negare che l’atteggiamento dello stato spagnolo nei confronti dei catalani (indipendentisti e non) si è mostrato di natura sorda e repressiva. Il Borbone lo ha confermato con le sue parole che non mancheranno di rafforzare il tradizionale repubblicanesimo catalano.

Fa da sfondo alla gestione poliziesca della questione catalana un male assai diffuso del nostro tempo: l’abbandono del terreno politico a favore di quello giudiziario, dei processi e delle contraddizioni sociali a favore della «legalità». Non è più dato chiedersi se qualcosa sia giusto, ma solo se sia «legale». È il trionfo del formalismo giuridico, che però non era così ipocrita da riempirsi la bocca di «valori» e principi etici come quelli che hanno fatto dello stato di diritto il diritto dello stato. In Spagna l’interruzione del processo di rafforzamento delle autonomie è stata una scelta politica dei governi della destra. Che ha conseguenze politiche. Non tener conto di questo significa considerare (come fanno il governo di Madrid e il monarca) il referendum un affare di ordine pubblico e le istituzioni che lo hanno promosso o non si sono prodigate nell’ostacolarlo (i Mossos) una banda di criminali. L’indipendenza, che la si auspichi o meno, è una questione esclusivamente politica: poiché significa la fuoriuscita da un ordinamento per istituirne un altro non può essere regolamentata dalla legislazione da cui intende prendere commiato.

Ma se la legalità non è in grado di sciogliere il nodo, il principio generale dell’«autodeterminazione dei popoli» non offre miglior aiuto. Sarebbe arduo fondare su questo principio una dichiarazione di indipendenza legittimata dal referendum del primo ottobre. I numeri e le circostanze non lo permetterebbero. Del resto si tratta di un principio equivoco e scivoloso, anche quando non rappresenti (come sovente è accaduto nella storia) una spudorata finzione manovrata dalle élites. Lo è per il sostanziale artificio, il popolo, che ne costituisce il soggetto.

L’esistenza di un «popolo spagnolo» o di un «popolo catalano» come soggettività unitarie, non sfuggono all’equivoco né ai tranelli della rappresentazione. In ogni caso, neanche chi conservi la fede più assoluta nella trascendenza dell’idea di popolo potrebbe mai rinchiuderla in una maggioranza elettorale.

Resta, dunque, la storia, e cioè quei processi sociali, culturali e politici che determinano il clima di una comunità territoriale, la memoria, gli interessi comuni e le dinamiche conflittuali che ne spingono l’evoluzione. Quella della Catalogna repubblicana è stata segnata da una durissima repressione franchista e da una caparbia volontà di autonomia dei catalani nei confronti del centralismo monarchico. C’è chi dice che 40 anni di democrazia siano un tempo sufficientemente lungo per mettere una pietra sul passato, ma si può pensare anche l’esatto contrario.

E il sentimento diffuso che circola in Catalogna in questi giorni sembra testimoniare per la seconda ipotesi.

Gli indipendentismi sono spesso accusati di trovare il loro principale movente nell’egoismo economico, nella volontà di non condividere le proprie risorse con le aree meno favorite del paese. Non si può negarlo, ma il peso di questo fattore non è così decisivo già solo per il fatto che il tornaconto economico dell’indipendenza politica è quanto di più incerto. E, come sempre, nel cambio di statuto c’è chi ci perde e chi ci guadagna. Inoltre il richiamo al principio di solidarietà ha un suono assai stridente in un’Europa che respinge i migranti nei lager libici.

L’Europa dunque. È questa, nonostante il formalismo burocratico dietro il quale si trincera, a formare il contesto nel quale si pone oggi la questione delle indipendenze e delle autonomie.

Non è un caso che dalla Catalogna alla Scozia e all’Irlanda del nord i sostenitori dell’indipendenza si dichiarino appassionatamente europeisti. Se l’Europa fosse infatti quell’entità politica federale che ne ispirò il progetto originario, essa potrebbe ben sostituire come principio unitario e riequilibratore gli stati nazionali, lasciando liberi ampi spazi di autogoverno territoriale. Come sappiamo è tutto il contrario di questo, e cioè una Unione tenuta in ostaggio da stati nazionali estremamente gelosi delle proprie prerogative politiche e integrata soprattutto dagli interessi comuni delle oligarchie economiche.

Chi non ama gli stati nazionali non può certo rallegrarsi della loro moltiplicazione ma, è questo un ulteriore paradosso che la questione delle indipendenze ci sottopone, neanche fare dell’unità nazionale un feticcio da difendere a qualsiasi costo, anche al prezzo di una feroce repressione manu militari. Di fronte a questa eventualità difendere la Catalogna, qualunque Catalogna diventerebbe una scelta ineludibile.