Nella prefazione a una raccolta di articoli di Slavoj Zizek e Srecko Horvat (Cosa vuole l’Europa?, Ombre corte, pp. 153, euro 14) scrive Alexis Tsipras: «l’economia è come una mucca. Si nutre di erba e produce latte. È impossibile ridurre la sua razione di erba di tre quarti e pretendere che produca quattro volte più latte. Essa ne morirebbe semplicemente». È una immagine semplice e incisiva quella cui fa ricorso il leader di Syriza per descrivere le pretese che la Troika avanza nei confronti della Grecia e i loro devastanti effetti. Fatto sta che il suggestivo esempio scelto da Tsipras è veritiero solo fino a un certo punto. La dottrina e la pratica del neoliberismo hanno trovato da un pezzo il modo di mungere anche la più scheletrica delle mucche, pur rinviandone costantemente il decesso. A partire dalla separazione netta e indiscussa tra l’obbligo di pagare gli interessi del debito e la necessità della crescita economica. Laddove il primo rappresenta un imperativo oltre che indipendente gerarchicamente sovraordinato alla seconda. La rendita finanziaria si garantisce, insomma, non sulla base di una espansione produttiva, ma sulla base di un potere di ricatto spudoratamente travestito da principio etico.

Strangolati e risanati

Per restare nella metafora bovina, la nostra mucca non avrà bisogno di produrre quattro volte più latte, ma di riversare gran parte del poco che produce nella cisterna dei creditori. Solvenza e sopravvivenza diventano così sinonimi in un assetto europeo che a parole perora la causa della crescita, ma che nei fatti dimostra di saperne, o volerne, fare a meno. Può durare all’infinito? Ragionevolmente si dovrebbe rispondere di no. Ma è difficile prevedere il margine di regressione sociale, economica e culturale che le oligarchie finanziarie possono ancora imporre alla popolazione dei paesi debitori e delle economie più deboli, quanto del benessere e dei diritti acquisiti e quanto a lungo potrà continuare a essere sacrificato sull’altare del fiscal compact. In questo senso è assolutamente lampante che la «terapia di risanamento» imposta alla Grecia da Berlino, Bruxelles e il Fondo monetario, funziona come un laboratorio nel quale si sperimenta cinicamente un modello di disciplinamento applicabile a diversi altri paesi europei.

È il governo della crisi, nella perpetuazione dei meccanismi che la hanno prodotta, quello che si sta sperimentando nei paesi dell’Europa mediterranea. Su questo punto Zizek e Horvat, a partire dai loro specifici punti di osservazione, rispettivamente la Slovenia e la Croazia, due paesi che non si possono certo considerare al riparo dai ricatti dell’ «Europa germanica», ritornano insistentemente.

Questo destino da «cavia» toccato alla Grecia e la determinazione politica di rifiutarlo, tenendosi però alla larga da ogni tentazione nazionalista e antieuropea, è tra le ragioni che hanno conferito a Syriza e al suo leader Alexis Tsipras un significato sovranazionale nello scacchiere continentale, ovvero la scelta del terreno europeo come il solo adeguato a contrastare la teoria e la pratica del liberismo. Le simpatie che il giovane leader greco sta raccogliendo in tutto il continente stanno ad indicare che questo punto di vista, quello degli «europeisti insubordinati», come li chiama Barbara Spinelli, si sta ampiamente diffondendo e non solo in vista della scadenza elettorale di maggio. Nella consapevolezza che le socialdemocrazie europee, per non parlare di ancor più moderati centrosinistra, non sono in grado di spingersi oltre modesti correttivi delle ricette liberiste.

La religione del debito

Il caso greco non è solo quello più drammatico, ma anche quello che più nitidamente ha messo in luce l’ipocrisia delle oligarchie europee e la sfacciataggine con cui solleticano l’opinione pubblica dei più competitivi paesi del nord. Al momento dell’esplosione del debito greco, i governi che si erano succeduti ad Atene furono accusati delle peggiori nefandezze: di avere truccato e manipolato i conti, di avere dilapidato enormi risorse per mantenere le proprie clientele e per acquistare consenso elettorale, in poche parole di avere corrotto l’intero paese. Ma quando, con le elezioni del 2012, Syriza, un partito che annunciava di ribellarsi alle regole dettate dalla Troika, minacciò di vincere le elezioni, da Berlino a Francoforte a Londra, con il contributo di gran parte dei media filogovernativi, piovvero gli inviti, più o meno minacciosi, rivolti agli elettori greci perché votassero proprio per quei partiti, il moribondo Pasok e «Nuova democrazia», che di quei governi corrotti e corruttori erano stati i protagonisti indiscussi, ma che ora si rendevano disponibili a tartassare la popolazione in nome dei sacri diritti della rendita finanziaria. Non potrebbe esservi un esempio più chiaro di questo dell’interazione tra oligarchie nazionali e sovranazionali, né indicatore più preciso di quanto insensata e regressiva sia la via del ritorno alle sovranità nazionali.

Il governo tecnocratico dell’Unione europea e i governi nazionali, che ne condizionano pesantemente il senso di marcia, condividono e si rimandano, in un continuo gioco di specchi, caratteri sempre più marcatamente postdemocratici. Ciò che a livello nazionale (come dimostra anche la poco appassionante disputa sulla legge elettorale in Italia) rappresenta l’ossessione della cosiddetta «governabilità», che dovrebbe mettere i governanti al riparo dall’insoddisfazione dei governati, corrisponde pienamente, sul piano europeo, a quella rigidità della governance che sacrifica i diritti e i livelli di vita dei cittadini alla stabilità della rendita. Cosicché gli stessi principi, più o meno vincolanti, enunciati dai trattati possono essere sospesi o congelati quando quest’ultima si ritenga minacciata.

Governabilità postdemocratica

Fatta naufragare la Costituzione europea, si provvede, quindi, ad adattare le Costituzioni nazionali al governo oligarchico della crisi. Costituzioni, fra l’altro, cui non è riconosciuto affatto il medesimo peso, contando, per esempio, assai di più quella tedesca di quella greca, slovena o italiana. Non è stata forse costretta l’intera Europa a pendere dalle labbra della corte costituzionale tedesca di Karlsruhe e subirne i tempi di decisione?

Se la Costituzione politica europea è stata lasciata allegramente bocciare dagli elettori francesi e olandesi, non appena si accenni a sottoporre una qualche misura draconiana di governo della crisi a un pronunciamento democratico, scattano il veto e la minaccia, la demonizzazione di qualsiasi alternativa. Così fu quando Papandreu propose di sottoporre a referendum il piano di «risanamento» imposto alla Grecia, per subito rinunciarvi con una precipitosa e indecorosa marcia indietro di fronte alle reazioni indignate di Bruxelles.

Zizek ricorda un episodio forse ancora più grave del dicembre 2012 quando la corte costituzionale slovena negò legittimità al risultato di un referendum popolare che respingeva una operazione di salvataggio delle banche a carico dello stato e dunque dei contribuenti. Secondo la corte l’adempimento di quel referendum, pur costituzionale, avrebbe messo a repentaglio altri valori costituzionali che nel contesto della crisi dovevano essere ritenuti prioritari. «Per dirla brutalmente – commenta Zizek – poiché soddisfare i diktat\aspettative è la condizione per mantenere l’ordine costituzionale, quei diktat e quelle aspettative hanno la priorità sulla costituzione».

L’aborto della Costituzione europea e la crisi delle Costituzioni nazionali delimitano oggi il campo di quella governabilità postdemocratica in cui gli interessi dominanti nazionali e sovranazionali si intrecciano e si sostengono reciprocamente, sospendendo diritti e dirottando risorse dal welfare e dai redditi verso la rendita finanziaria. Non dovrebbe più essere un mistero per nessuno che nel contesto della finanziarizzazione la fiscalità ha cambiato profondamente di natura, destituendo radicalmente la retorica «solidaristica» di cui ancora si ammanta.

Veleni tecnocratici

Naturalmente oltre la via postdemocratica ne esiste un’altra per così dire predemocratica: quella del ritorno alla sacralità delle sovranità nazionali propugnata da un arco di forze che si estende dai populismi più o meno plebiscitari fino all’estrema destra apertamente fascista, come quella di «Alba dorata», velenoso sottoprodotto del laboratorio greco. Qui si affiancano alla tradizionale xenofobia la nuova mitologia di una presunta guerra tra nord e sud, vaneggiamenti autarchici e ideologie nostalgiche. Per quanto se ne possa prevedere un certo successo è assai difficile che il nazionalismo di ritorno riesca a prevalere. Più probabilmente contribuirà, in una misura che è ancora difficile prevedere, a ostacolare un trasformazione democratica dell’Unione europea.

Cosa vuole l’Europa? La domanda che da il titolo al libro non ha risposta. O meglio, la risposta è che non vuole nulla. Non esiste infatti alcuna entità, costituita o costituente, istituzionale o sociale, in cui risieda una volontà politica europea, una autonomia di pensiero e di progetto che sappia discostarsi significativamente dalla pratica e dall’ideologia della globalizzazione liberista. Questa autonomia è ancora tutta da costruire sull’unica scala che lo può rendere possibile: quella dell’intera Europa. Per il momento sono altre volontà a muovere la macchina comunitaria e a stabilire il funzionamento dei suoi ingranaggi, quelle interessate all’accumulazione del capitale e pronte a reagire violentemente di fronte ad ogni suo blocco. Sono queste volontà che dettano gerarchie ed equilibri e che impongono la competizione su un terreno che dovrebbe essere comune.

Il surplus della Germania, cui corrisponde il deficit di altri paesi, non finirà nelle tasche dei lavoratori tedeschi o nelle casse del welfare di quel paese, ma nell’accrescimento dei patrimoni finanziari.

Il prezzo spaventoso che il governo della crisi ha mostrato di comportare è da un pezzo visibile ai più, ma la costruzione di un movimento sovranazionale capace di aggredirne il modello è solo ai primi passi. Anche l’avventura di Alexis Tsipras può essere considerata, almeno su un piano simbolico, uno di questi. Non qualcosa che si sostituisca a un programma costruito nelle lotte, ma una delle espressioni della sua necessità.