I talebani sono cambiati rispetto agli anni Novanta? È una domanda che si pongono in molti, perché dalla risposta dipende la disponibilità della comunità internazionale a riconoscere il nuovo Emirato islamico. «Le posizioni moderate delle prime settimane di settembre 2021 sono state il frutto della preminenza dell’ala pragmatica rappresentata da Baradar, consapevole che una qualche moderazione è necessaria per ottenere il riconoscimento internazionale e cercare consensi dentro il paese», scrive la competente studiosa Elisa Giunchi nella nuova edizione aggiornata del suo saggio «Afghanistan. Da una confederazione tribale alle crisi contemporanee »(Carocci, 2021, pp. 174, euro15). Partendo dalla struttura sociale e dall’identità religiosa per poi soffermarsi sulla condizione femminile, il volume ripercorre la storia dell’Afghanistan dalla prima metà del Settecento ai giorni nostri: da confederazione tribale a monarchia costituzionale, la diffusione dell’islamismo e il progetto comunista, dai muhajeddin ad al-Qaeda, dai talebani a «Enduring Freedom», e poi la lunga guerra fino alla rinascita dell’Emirato talebani. Professore ordinario in Storia e Istituzioni dell’Asia all’Università degli Studi di Milano, Giunchi ritiene che «nella migliore delle ipotesi l’Emirato islamico assomiglierà al modello saudita: le donne godranno di alcuni limitati diritti, ma non vi sarà alcuna uguaglianza di genere; gli sciiti non saranno oggetto di massacri, ma saranno emarginati sotto il profilo politico; gli intellettuali, i docenti e i giornalisti potranno continuare a esercitare le loro professioni, ma senza fare dichiarazioni che possano ledere gli interessi del potere costituito e la versione ufficiale dell’islam».

Un altro saggio utile per decifrare l’Afghanistan si intitola «La Grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979» ed è corredato di mappe sui ceppi linguistici e i gruppi etnici, le basi militari straniere, le risorse idriche, minerarie e agricole. A cura di Emanuele Giordana per i tipi di Rosenberg (2021, pp. 148, euro12,50), si apre con la testimonianza di Soraya Malek, nipote di quel re Amanullah che a Roma trascorse gli anni dell’esilio. Il libro raccoglie vari contributi, tra cui quello della già citata Elisa Giunchi sull’intreccio tra l’Islam e il codice etico delle tribù pashtun del Sudest, tradotto in norme minuziose e nella costruzione del consenso attraverso assemblee consultive e una sostanziale indipendenza dal potere centrale. Chiara Sulmoni documenta le vittime civili e la poca collaborazione da parte americana e afgana nel far luce sulle atrocità commesse. Paolo Affatato scrive delle persecuzioni ai danni delle minoranze religiose perché l’Afghanistan non è solo Islam ma ci sono anche ebrei, cristiani, sikh e indù, come ben racconta lo scrittore afgano Atiq Rahimi nel suo romanzo «I portatori d’acqua» (trad. di Yasmina Melaouah Einaudi, 2020, pp. 192, euro 18,50). Nino Sergi punta il dito sul fallimento della cooperazione civile. E ancora, per capire le vicende afgane, si segnala il volume «Afghanistan cosa sta succedendo» a cura di Alessandro Ceci (Luca Sossella Editore, 2021, pp. 206, euro14) in cui – tra gli altri – Lorenzo Vacca discute di risorse minerarie e Alessandro Popoli di oppio.

Un tema, quest’ultimo, che Peter Andreas approfondisce nel curioso saggio «Killer High. Storia della guerra in sei droghe» (trad. di Andrea Maffi e Paolo Ortelli, Meltemi, 2021, pp. 364, euro 20). «Oggi per definire paesi come l’Afghanistan, profondamente coinvolti nel traffico illecito di droga, si usa tipicamente il termine ’narcostato’», scrive il politologo della Brown University. Focalizzato sulla relazione tra droghe e guerra come fattori che maggiormente hanno favorito gli stati e le loro aspirazioni militari, l’autore elenca «l’enorme gamma di opzioni stupefacenti messe a disposizione delle truppe statunitensi», a dimostrazione del fatto che «se da un lato gli eserciti contemporanei vengono schierati su un numero di fronti sempre maggiore per combattere la droga, dall’altro combattono sempre più ’fatti’ di droga». A dire il vero, tutte le maggiori potenze possono essere etichettate come ’narcostati’ perché «in tempi, modalità e misure diverse hanno potuto contare sulla droga e sui proventi della droga per perseguire l’obiettivo di fare lo stato e fare la guerra». In alcuni casi «si è trattato persino di costruire un impero, come illustrano l’incapacità della Russia imperiale di fare a meno delle entrate della vodka e il dominio dell’Impero britannico nel commercio del tè e dell’oppio, oltre alla sua forte dipendenza dalle tasse sull’alcol».