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L’artista mentre legge ad alta voce insieme ad altri lettori

Una volta a Lione c’erano i «canuts», tessitori della seta che si ribellarono alle condizioni disumane di lavoro, giurando vendetta e alzando la testa. Oggi sono tornati, nel cuore del 7ème arrondissement della città, alla Sucrière, per sbarcare direttamente in Biennale: se non in carne e ossa, visto il gap temporale, sono riemersi con la loro canzone di lotta, composta nel 1894, che racconta una delle prime insurrezioni sociali agli albori dell’età industriale. Ci tiene, Marinella Senatore, unica artista italiana alla rassegna di Lione (per di più invitata in residenza) a sottolineare che il coro scelto – persone della comunità cittadina, dove si mescolano diverse classi sociali, banlieues e centro storico – canterà quelle parole prima delle presentazioni ufficiali, quando i ministri saranno lì, raccolti in Sucrière per dare inizio al loro discorso di benvenuto agli astanti. Lo ribadisce più volte, sprizzando caparbietà anche dagli occhi neri, segnati dal kajal. «Anche io ho dovuto lottare per ottenere ciò che volevo, mi piaceva che gli operai venissero prima dei politici, che si riconsegnasse ai lavoratori il loro giusto posto, ma non è stato per niente facile».

Abituata a immergersi nelle dinamiche urbane dei contesti dove si trova a produrre i suoi progetti, Senatore (nata nel 1977 a Cava dei Tirreni, vive tra Berlino e Londra) fa dell’ascolto e della capacità di comprendere l’identità altrui il motore di ogni sua performance. Dopo Rosas che ha coinvolto più di ventimila persone di diversi paesi, l’artista ha sondato il territorio di Lione per mesi a modo suo, ripercorrendo a ritroso la storia della città francese, che possiede delle radici fortemente operaie, una memoria stratificata che affiora in molti nomi di strade. Nel suo solito mix, chiamando a raccolta i partecipanti, Senatore ha portato in Biennale un coro di persone che vedono male e alcuni lettori e lettrici, selezionando una ipotetica biblioteca «costruita» a partire da quelle vere di quartiere. «La cosa che più mi ha interessata è stato lo scambio dei libri: per rendere l’idea in modo semplice, individui delle classi agiate e altri delle classi più povere si incontravano e si davano consigli. In genere, i meno abbienti leggevano classici e libri più importanti». Così, almeno secondo quanto rilevato dalle alchimie create da Marinella Senatore, c’è stata una sorta di alfabetizzazione al contrario. Letteratura e saggistica trash si sono impastate con quella «alta», in una babele di lingue che teneva conto anche dell’immigrazione nel paese

Anche questa è, in fondo, una tecnica della «resistenza», parola molto cara all’artista, cui sempre ritorna per sviluppare le sue «azioni dell’imprevisto». Come sua abitudine, ha raccolto impressioni da associazioni di musica, artisti, danzatori per dar vita a una specie di «inno» che incornicia La vie moderne, marchiando l’edizione 2015. «Non amo la definizione di ’arte partecipativa’: la maggior parte delle persone che ne parla o la produce, in realtà non interagisce con nessuno, impone le cose dall’alto e non lavora davvero dando spazio alle idee collettive, ha un atteggiamento dittatoriale – dice Senatore -. All’estero capiscono di più questo tipo di miei progetti, li comprano a scatola chiusa semplicemente per la loro descrizione. Poi, quando mi chiamano, li vado a completare, a mettere in atto impegnando ogni volta molti mesi. C’è, in effetti, un’apertura mentale diversa, dal Brasile a New York a Londra. In questo momento, sto lavorando moltissimo, ma sempre fuori dal mio paese».