Il palcoscenico disadorno di quello che sembra un teatro abbandonato, due «pensionati» illustri, vestiti abbastanza informalmente, che se la raccontano, senza fretta. Uno ha una barba da Matusalemme. L’altro, decisamente più giovane, un sorriso bellissimo. My Guest Needs No Introduction, il nuovo programma di David Letterman, da venerdì scorso su Netflix, apre tra Beckett e Rip Van Winckle. Primo ospite che -come da titolo- non ha bisogno di presentazione, è Barack Obama; una scelta che sottolinea il senso di tempo sospeso evocata dal programma e che, insieme al ritorno del settantenne conduttore tv, dopo due anni e mezzo di «retirement» ha subito fatto scattare un moto collettivo di nostalgia. Lo slot di Letterman, tutte le notti alle 23, sulla CBS, è stato ormai riassorbito con successo (dopo una partenza a singhiozzo) da Steven Colbert.

E, se quel suo tocco situazionista, la coolness, i silenzi d’anticipazione che precedevano lo schiudersi del suo sorriso feroce quando si preparava a calare su un ospite con una domanda, come un falco, ogni tanto mancano nella galleria più estroversa e partigiana della nuova generazione dei presentatori di tarda serata, non si può dire che le apparizioni di Letterman manchino come i fix quotidiani di Jon Stewart. O, peggio ancora, come Obama (ci) manca alla Casa bianca. Con questo nuovo show a cadenza mensile, della durata di un’ora, tutta essenzialmente dedicata a un personaggio Letterman offre però a Netflix l’opportunità di sfoggiare un pezzo di storia della tv Usa e a stesso di sovvertirla.

Fatto, come quasi tutta la produzione da piattaforma, per essere consumato qualsiasi giorno e qualsiasi ora, diversamente dal programma a cui il conduttore ha dedicato trentatré anni di carriera (sulla NBC prima di passare a CBS), My Guest Needs No Introduction, è slegato dalla morsa stritolante delle news e della macchina promozionale che condizionava i precedenti invitati di Letterman, a favore di un formato più ondivago e riflessivo, con momenti di curiosa introspettiva. Chi si aspettava che in una tra le rare interviste televisive concesse post Casa bianca Obama si sfornasse consigli per democratici in carriera o staccasse giudizi su Trump, sarà rimasto deluso.

Il nome dell’attuale presidente non è stato pronunciato nel corso della conversazione, e quello che la ha preceduto non ha offerto indicazioni strategiche, come fa l’esercito di pundit che ci martella no-stop sulla cable tv. Non che, nonostante il tono casual, colloquiale, Obama non abbia mandato a segno qualche colpo («Parte dell’abilità di governare il paese non sta nel passare delle leggi o delle regole, ma nel modo in cui si (in)formano gli atteggiamenti, la cultura, una sempre maggior consapevolezza») ma in generale si è tenuto su un registro generale – muovendosi tra gli aneddoti famigliari, la biblioteca presidenziale e il suo desiderio di energizzare una nuova generazione di leader democratici.

Il fatto evidente che l’intervista avesse dei paletti ha stranamente funzionato a suo vantaggio: in mancanza di sound bite, ci si lasciava andare al ritmo dolce della conversazione, al senso più profondo delle parole – l’ora del colloquio interrotta solo un paio di volte per staccare sull’Edmund Pettus Bridge di Selma, il ponte della storica marcia in Alabama, che qui viene attraversato da Letterman insieme a John Lewis, uno dei più anziani membri del Congresso che lo percorse, giovanissimo, al fianco di Martin Luther King. Arrivate su Netflix poche ore dopo la shithole storm su Africa e Haiti, queste immagini e la calma pacata di Obama sembrano una diretta da Marte. «Il giorno di quella marcia ero a ubriacarmi con dei compagni di Yale su una nave da crociera diretta alle Bahamas. Com’è possibile che non sapessi cosa stava succedendo?». Dice Letterman alla fine. E ha le lacrime agli occhi.