In pandemia @Ap
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Nei giorni terribili del Marzo 2020, attraversando di ritorno dal lavoro la città livida e desolata, mi è capitato spesso di pensare alle scene gelide di “Germania anno zero”. Nella città distrutta dalla guerra, il piccolo Edmund vaga fra le rovine, finendo per gettarsi nel vuoto, sopraffatto dal disastro. Edmund muore perché non riesce a immaginare nulla oltre le macerie. Cosa che, invece, la politica dovrebbe fare.

È sempre più difficile, dopo due anni di irrazionale gestione di questa crisi, orientare la riflessione su provvedimenti e misure che sembrano sempre rincorrere la situazione senza riuscire a governarla e che pretendono di risolvere l’incapacità gestionale con il ricorso all’autoritarismo.

A tale proposito risulta particolarmente importante, e degna di una discussione pubblica seria, la vicenda delle sospensioni per i docenti che si sono rifiutati di sottoporsi alla vaccinazione. Il tema, ovviamente, è rilevante per tutto il mondo del lavoro ma la questione dei docenti, all’interno del disastro delle politiche scolastiche al tempo del Covid è, purtroppo, paradigmatica.
Al momento non si ha una stima precisa del personale docente sospeso ma il tema su cui riflettere è, al di là dei numeri, la legittimità politica di un provvedimento del genere e le crepe che apre nella tenuta già precaria della nostra democrazia. Considero del tutto infondate le tesi addotte da chi intende sottrarsi alla vaccinazione, i numeri dicono chiaramente che senza la campagna iniziata nel 2021 oggi rivedremmo i camion colmi di bare, basta farsi un giro in corsia e aver vissuto i mesi terribili del 2020 per capirlo. In base ai dati che abbiamo a disposizione, quindi, nessun motivo di quelli addotti dagli oppositori della campagna vaccinale è condivisibile e tuttavia il provvedimento del Governo, che sospende i docenti privandoli dello stipendio non può essere considerato una cosa “normale”, come troppo spesso anche “a sinistra” accade. Credo che sia importante, invece, che qualche riflessione su questa vicenda lacerante arrivi proprio da chi fa parte della popolazione vaccinata ma non vuole essere arruolato in una guerra senza senso. Tanto più se indossa un camice bianco.

La prima questione è relativa alla sospensione dello stipendio. Il peso rilevante di questa misura (che niente ha a che fare con la salute) condiziona notevolmente i termini del discorso perché pone il provvedimento ben oltre il divieto di accesso alle classi per soggetti non vaccinati e quindi, più che “untori” come erroneamente li si dipinge, membri di una popolazione a rischio. È evidente che colpire il reddito e attraverso questo un’intera famiglia, sia cosa ben diversa. A tale proposito fa pensare il silenzio anche in ambiti che su questo dovrebbero invece esprimersi. Personalmente sostengo da sempre la necessità di un reddito universale garantito, come accettare una misura disciplinare che, invece, punta a generare una coercizione colpendo proprio il nesso lavoro-reddito? Chi non si vaccina non lavora, chi non lavora non mangia è una logica accettabile? Chi ragiona e fa politica su questi temi dovrebbe avere la forza di esprimersi, anche perché questi provvedimenti costituiscono un precedente che potrebbe, in seguito, riproporsi e consolidarsi. Se questa è una misura di sanità pubblica, allora un’altra domanda è lecita. Davvero pensiamo di costruire una sanità delle coercizioni e dell’autoritarismo? Il tema è quanto mai attuale, proprio nella prospettiva di una necessaria riforma radicale del sistema sanitario pubblico, che dovrebbe partire, invece, dalla creazione di una nuova alleanza con la società, un rapporto che oggi è irrimediabilmente crollato e sul quale intervenire a colpi di decreti punitivi può fare danni peggiori di un virus.

Nell’attuale fase di sviluppo della pandemia, peraltro, con la diffusione del contagio ormai ubiquitaria e la accertata trasmissibilità del virus anche da parte di soggetti vaccinati, questo scontro appare ancora più problematico. Avremmo potuto discuterne se nel pieno dell’emergenza ci fossimo trovati tra le mani il farmaco in grado di mandare per sempre in soffitta SARS-CoV-2 ma evidentemente non è così. I vaccini attualmente disponibili, sulla cui efficacia ci sono pochi dubbi, costituiscono “uno” dei dispositivi di contrasto al virus ma un’istituzione sanitaria onesta deve avere il coraggio di dire, come provavo a fare nel Marzo del 2020 dalle colonne di questo quotidiano, che il vaccino da solo non ci salverà e che sia invece essenziale una risposta articolata che integri l’intervento farmacologico con sostanziali riforme sociali, dirette a interrompere la catena di trasmissione del contagio. Proprio gli interventi sugli snodi essenziali della diffusione virale, invece, scuola, trasporti, luoghi di lavoro sono mancati. In questo contesto il vaccino da strumento di prevenzione di massa diviene dispositivo ideologico che punta a coprire le gravi carenze e le responsabilità di una classe politica evidentemente non all’altezza dei propri compiti.

Proprio sulla scuola, il provvedimento che colpisce i docenti “dissenzienti” apre un conflitto enorme, che risulta paradossale se si considera la sostanziale assenza di misure per la messa in sicurezza degli istituti scolastici. A parte la Dad, comprensibile in una prima fase emergenziale e assolutamente improponibile oggi, gli unici interventi di cui si ha notizia sono l’acquisto degli inutili banchi a rotelle, la fornitura di mascherine simili a strofinacci per la polvere e l’invito ad aprire le finestre anche d’inverno per favorire l’aereazione delle aule. Tracciamento, forniture di tamponi, installazione di impianti di aereazione, assunzioni e interventi tesi a diluire l’affollamento delle classi sono una chimera. Che credibilità può avere un’istituzione del genere che compila liste di proscrizione? È questa scarsa credibilità il nodo della faccenda, perché è in quella crepa che attecchisce e si ingrossa la piaga delle fantasie di complotto, alimentate in buona parte da una ormai cronica sfiducia nelle istituzioni.

Per provare a colmare questo divario potremmo innanzi tutto provare a smettere di parlare di “No Vax”, termine che racchiude dentro un recinto concettuale una massa eterogenea di persone, sensibilità culturali, paure. Basta frequentare un ambulatorio o le strade delle città per verificare che accanto a una minoranza di persone rapite delle fantasie da complotto ci sono diverse posizioni, alcune francamente irritanti altre che invece meritano ascolto. In primis perché il camice bianco – quello che molti fra quelli che governano le istituzioni sanitarie non hanno mai indossato – impone di andare incontro ai timori dei pazienti, e poi perché se le risposte risultano quasi sempre fuori fuoco le domande, invece, spesso non lo sono.

Tra queste, l’interrogativo centrale è: quale sistema sanitario vogliamo costruire? Quello che ignora quelle domande relative all’etica dei medici, all’ingerenza del complesso industriale del farmaco sulle politiche sanitarie, alla libertà della ricerca dagli interessi economici e risponde alla frattura creata dalle proprie stesse inefficienze con l’autoritarismo? Se è così, bisogna sapere che la distanza che già da anni si è creata fra società e medicina è destinata a diventare una ferita così profonda che nessun bravo chirurgo sarà in grado di suturare.

Se si vuole veramente intervenire su questa lacerazione, invece, occorre indagare con onestà le gravi responsabilità politiche nei processi che hanno per decenni smantellato la sanità pubblica e opporsi a posizioni inaccettabili come quelle espresse da Bersani, che aizzando lo scontro fra vaccinati e non, (come se fosse quello il problema), dichiara che in caso di necessità va curato prima un soggetto vaccinato. Un’aberrazione che assume un tono particolarmente acre tra le labbra di chi è stato direttamente responsabile dello sfascio attuale del sistema pubblico attraverso due pilastri della lunga controriforma avviata all’indomani della Legge 833 del ’78: i decreti di riordino del ’92-’93 e del ’99 e la Riforma del Titolo V della Costituzione del 2001.

È indubbiamente difficile orientarsi tra quello che dicono le nozioni della medicina e il terreno terremotato della collettività. Sicuramente, però, di fronte a questa che, al di là di tutto è una pagina triste della nostra storia contemporanea, credo che sia necessario prendere parola e avviare una riflessione sulla quale trovo che pesi il silenzio di molti, probabilmente motivato dalla paura di essere annoverati fra i “renitenti” o dalla volontà di non “dare spago” alle innumerevoli teorie fantasiose che avvelenano il dibattito pubblico. Ma tacere significa, in qualche modo, rispondere a una chiamata alle armi della quale proprio non si sente il bisogno in questo momento. Quale sarebbe, del resto, la politica alla quale dovremmo dichiararci allineati? Quella che dopo due anni di crisi che hanno fatto a pezzi un sistema formativo già malridotto (proprio come il Covid sugli organismi debilitati dalle patologie pregresse) pensa di salvare la scuola mettendo fuori dal sistema i docenti? E come pensa di fronteggiare la carenza di insegnanti, il sovraffollamento delle aule? Che autorità ha questo sistema di governo che forza sull’apertura delle scuole senza preoccuparsi della messa in sicurezza e si trova le aule mezze vuote in tutta Italia per i contagi diffusi fra studenti e docenti? Se questa è la Patria che chiama all’adunata, “ditele che s’impicchi”, per ricordare il testo di Fausto Amodei e Franco Fortini.

Mentre la diffusione delle varianti virali muta quotidianamente lo scenario e i Governi hanno deliberatamente scelto, come almeno ebbe il coraggio di dire apertamente Boris Johnson, che il virus va fatto circolare e sopravviva chi può, piuttosto che partecipare a guerre indotte dall’alto sarebbe importante cominciare a preoccuparsi delle macerie e di quello che si può costruire, insieme, per sostituirle.