La sinistra ha il coraggio di dire la verità? La domanda posta domenica da Alessandro Portelli sul «perché c’è Casa Pound e non la sinistra nelle strade in cui i cittadini si scagliano contro i migranti» è l’occasione per una riflessione seria, che coinvolge tutti. Non parla del presente sconosciuto, ma di un passato sedimentato: quello che sta accadendo infatti cova da tempo e corrisponde alla crisi della sinistra. Nessuno può sentirsi escluso. Il punto allora non è individuare oggi la presenza di Sel nei territori, ma capire piuttosto con quali strumenti e con quali linguaggi bisogna porsi in alternativa allo «schifo» creato ad arte da Casa Pound, Lega e Forza nuova con la complicità di alcuni cittadini.
Recentemente ci si è mossi sulla difensiva troppo spesso: per paura di andare contro il «popolo» e contro il populismo. Ci si affretta a non dare l’etichetta di razzista a nessuno (tranne ai soggetti politici organizzati), cercando sempre giustificazioni alla rabbia di certe proteste. È stata definita una nuova «guerra tra poveri» delle periferie disagiate. Un paradigma che cade davanti a Casale San Nicola, non certamente una delle zona più complicate di Roma, dove forse piuttosto è in atto una «guerra ai poveri».
Forse bisogna ammettere che in Italia – come in Europa e negli Usa – siamo di fronte a un pericolosissimo razzismo di ritorno. Certo, possiamo dire che c’è la crisi, che la criminalità controlla il territorio, che c’è povertà, ma dobbiamo dire anche che c’è razzismo. Lo respiriamo ovunque, ogni giorno.
Per questo, se vogliamo misurarci con la realtà ed esprimere una cultura politica alternativa, dobbiamo avere il coraggio di essere anche impopolari e di dire, a chi ci racconta che non arriva a fine mese, che stiamo lottando per il lavoro e il reddito minimo garantito ma dobbiamo aggiungere che chi sta scappando da una guerra sta peggio di lui e che no, non è vero che vengono «prima gli italiani».
La sinistra ha il coraggio di dire la verità? Vuole farlo? Se sì, possiamo attrezzarci e affrontare questa situazione. Siamo di fronte a un’inadeguatezza politico istituzionale e a una regressione culturale sociale da brivido, persino il Papa su questo tema non ha consenso tra i fedeli. Cercare scorciatoie vorrebbe dire rimanere muti. Né possiamo cavarcela con la retorica vuota dello «stare tra la gente».
Serve un piano. E intellettuali capaci di usare il «noi», come ha fatto Portelli. Perché l’assenza non è solo della sinistra politica ma anche di quella sociale. Dobbiamo imparare a parlare con chi sbraita in strada contro i profughi, ma dobbiamo anche arrivare a chi sta chiuso dentro casa imbarazzato per il teatrino che va in scena sotto casa sua. La sfida è troppo importante. È civiltà o barbarie. A noi la responsabilità della scelta.
Celeste Costantino, deputata Sel

Scrivo per rispondere ad Alessandro Portelli, «Razzismo quotidiano, le colpe della sinistra». Articolo bello, solo qualche riflessione a margine. La sinistra, la nostra sinistra (appartengo alla categoria degli «altri», cui fa sbrigativamente cenno Portelli nell’articolo) subisce da un trentennio una denigrazione massacrante: nei luoghi di lavoro, nelle strade, nelle scuole, persino nei «nostri» giornali, con inviti aggressivi a non farsi vedere, a non portare le bandiere, e non strumentalizzare (parola assurda, su cui tornare con attenzione). Questo, unito ad errori indubbi, ci ha messo in un angolo, nel quotidiano stillicidio che ha inciso sulle coscienze militanti, svuotandole, ammainandole. E’ forse per questo che, nell’immensa Roma, non c’è stata una presenza forte di contrasto alle furie fasciste. Altrove, dove un minimo di resistenza esiste ancora, le cose sono andate diversamente: a Ventimiglia/Menton, dove le forze della sinistre «altre» (collettivo «no border», Partito Comunista Francese -orribili stalinisti, vero?-, A.D.N, etc.) da un mese stanno presidiando il confine, assistendo i/le migranti sugli scogli tra i due Paesi; a Trieste l’I.C.S., con meravigliosi/e operatori e operatrici, sta reggendo con intelligenza un arrivo continuo di migranti (afghani, pakistani, siriani), né si sono avute «legittime proteste dei residenti» (abito in una via in cui vi sono interi palazzi abitati da migranti, senza il minimo problema, nonostante i tentativi della stampa locale di fabbricare l’incidente). E così altrove. Per concludere: non penso abbia più senso chiedersi «dove sono i/le militanti antirazzisti/e» (né «i/le pacifisti/e»…), perché la sconfitta c’è stata ed è in corso, e non abbiamo la capacità militante nemmeno di dieci anni fa; occorrerebbe seguire, e dare spazio, a quanto questa sinistra slabbrata fa e dice, nonostante la fatica dei corpi nelle vite quotidiane.
Gianluca Paciucci