Abou aveva 15 anni, è morto a Palermo lunedì scorso dopo essere fuggito dal suo paese.

Era un migrante salvato in mare dalle ONG e poi portato in una delle due navi che davanti il mare di  Palermo tengono chiusi i migranti e non gli fanno mettere piede in terra ferma.

Io che sono stato insegnante conosco bene i quindicenni di Palermo: a centinaia sono stati miei alunni a scuola. A quindici anni scoprono la musica rock, o anche quella neomelodica. Prima del covid, il sabato le piazze del centro erano loro. Ore a parlare, a bere, a fumare e solo a notte fonda o alle prime luci dell’alba rincasavano. In giro con chitarra, auricolari, ciclomotori, mentre vanno formandosi le loro idee. Questa era la movida a Palermo fino a qualche mese fa e questa sta tornando ad essere.

A quindici anni, invece, Abou proveniva da un qualche villaggio dove vivere può essere una scommessa. Ragazzi che devono costruire da soli il loro futuro per vivere. E la risposta è sempre più ricorrente: andare via con o senza la benedizione della famiglia.

Le rotte per arrivare in Europa le conosciamo perché ce le hanno raccontate quelli che ce l’hanno fatto, nonostante i ricatti, le torture, gli stupri subiti. Ce le hanno raccontato anche i giornalisti che fingendosi africani, armeni, siriani hanno fatto parte di quelle carovane dirette in Europa.

Ma tutto questo non sminuisce l’odio che li attende nelle nostre città, manifestato fino alla violenza, ai pugni, ai calci, e fino a un ministro che quell’odio ha trasformato in due decreti legge.

A quindici anni Abou e i suoi coetanei hanno avuto a che fare con rischi di questa portata e con il rischio di morire annegati. La vita non li ha voluto adolescenti, ma subito adulti, a combattere per sopravvivere.

Quelle due navi nella rada di Palermo, solitamente piene di turisti, oggi sono stipate di migranti per prevenire il covid, che, come insegna Salvini, viene dall’ Africa. Sono i nuovi centri di accoglienza: carceri per chi non ha  commesso alcun delitto. Quelle due navi servono soprattutto a noi, più che a loro: per non vedere, per non sapere, per poter dire io non sapevo. Se poi ti convincono a scaricare su quei miserabili anche la colpa del contagio covid, senti che è assolutamente necessario che non mettano piede a terra, che non facciano parte del tuo mondo. Sono su una nave che puoi anche vedere da lontano, lucida e bianca come un contenitore stagno di materiale radioattivo, ma non vedi i volti, non vedi i bambini, non vedi gli Abou quindicenni. Meglio non sapere che hanno l’età dei nostri ragazzi per i quali chiudiamo un occhio quando fanno le feste e le movide anche se innalzano i contagi.

Ma Abou non è morto sulla nave, è morto in uno degli ospedali di Palermo dove la gente va a curarsi. L’hanno dovuto ricoverare perché era già totalmente disidratato senza aver visto un medico da dieci giorni. Abou per legge aveva un tutor essendo un minore non accompagnato. Per legge doveva anche essere visitato periodicamente da medici, non fosse altro che per controllare che non avesse il covid. Allora perché si è arrivati alla sua morte per disidratazione, senza che nessuno sia intervenuto prima che entrasse in coma? Le nostre leggi rispettano ancora lo straniero e riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo come sta scritto in quel patto sociale che è la costituzione? O siamo già passati oltre, abrogando, senza neppure un referendum, quegli articoli che i nostri costituenti, ancora con sotto gli occhi le persecuzioni della guerra,  avevano sentito irrinunciabili?