Chiamatemi Ismaele. L’anno scorso, finita la magistrale, decisi di tentare il dottorato. All’inizio in realtà non ne ero convintissimo e trascorrevo le giornate a parlarne con il mio coinquilino. Avevamo condiviso molto, durante tutto il periodo universitario. Non eravamo concordi su tutto e spesso le nostre chiacchierate diventavano accese. Riconoscevamo entrambi l’utilità della ricerca, ma non potevamo nasconderci che quella strada portava con sé anche dell’altro. Ci dicevamo che certo, quando si fa ricerca, si può produrre sapere critico, mettere tutto in discussione: si può “prendere posizione”. Si può. Non è automatico.

Ma la ricerca non è solo questo. Significa anche accettare un sistema, che ha a che fare con le esigenze economiche e politiche del MIUR (il “Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca”), dell’ANVUR (l’“Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca”) e della stessa Università in cui si ritrova a svolgere il proprio lavoro. A tutto questo va sommata la lotta spietata fra gli studenti prima e durante i colloqui di ammissione, negli stratagemmi pensati per fregare tutti gli altri, dal decidere di proporre un tema di ricerca pensato appositamente per la commissione presente – magari da stravolgere il giorno dopo essere stati ammessi – al nascondere, prima del colloquio, il proprio tema di ricerca agli altri, terrorizzati dalla possibilità che qualcuno possa “rubare” l’idea. Un vero e proprio colloquio di lavoro con concorrenti spietati, architettato da un’azienda che vuole lucrare da quest’antagonismo.

Alla fine, come scrivevo all’inizio, decisi comunque di tentare. Di buona lena comincia a mettere assieme le pubblicazioni, gli esami fatti, i voti, le certificazioni, le conferenze e tutto quello che poteva essere utile a costruire un CV appetibile. Fu una tortura. Ogni volta che aggiungevo qualcosa avevo sempre la sensazione di mettere da parte tutta quella rete di incontri, relazioni, ambienti che quella cosa portava con sé. Niente era “merito” mio, semmai frutto di costruzioni collettive, dallo studio, alla passeggiata, alla chiacchierata da ubriachi, magari in piazza di notte, suonando la chitarra. Ogni cosa aggiunta portava con sé un paesaggio e quell’operazione riduzionista aveva il sapore di burocrazia, puzzava di morte.

Ultimato il CV mi feci convincere a creare un profilo su LinkedIn e su Academia.edu. Nel frattempo, cominciai a studiare tutti i bandi aperti in quel momento. Pur non avendo un punto di caduta specifico, sapevo in quale direzione avrei voluto fare ricerca, che bussola utilizzare. L’urgenza era chiara, il “nodo” in cui si sarebbe risolta l’avrei scoperto strada facendo. Mi misi allora a viaggiare in lungo e in largo per l’Italia, tentando i colloqui in quelle Università dove in qualche modo sapevo che avrei potuto seguire quella strada che tanto avrei voluto percorrere. Durante tutti gli studi universitari avevo pesato sulle tasche dei miei genitori. A quasi 30 anni, il dottorato per me, oltre alla possibilità di fare ricerca, significava anche rendermi indipendente, avere una borsa (uno stipendio). Si trattava di lavorare e il lavoro dovrebbe prevedere sempre uno stipendio. Dopo alcuni tentativi riuscii a vincere, ma senza borsa.

Avevo una scelta davanti: rinunciare e tentare l’anno dopo o accettare e continuare a chiedere prestiti ai miei genitori. Il tempo per decidere era poco e decisi di accettare. In fin dei conti il dottorato dura tre anni: tre anni di spese (affitto, spesa, bollette, spostamenti, libri..). Fortuna vuole che mi sia ritrovato a fare ricerca con degli amici, più che con dei colleghi. Già la prima volta che abbiamo incrociato gli sguardi, almeno con alcuni, ci siamo capiti. Stavamo percorrendo quel tratto di strada assieme per urgenze simili, seppur attraverso linee di ricerca diverse. Fino a febbraio ci siamo visti quasi ogni settimana, per più giorni. Ci incontravamo per un caffè al bar vicino l’Università, spesso senza darci appuntamento, poi andavamo a seguire le lezioni e poi tutti assieme a mangiare, discutendo per ore. Parlavamo di quanto ascoltato a lezione, dei nostri interessi e dei problemi su cui ci stavamo incaponendo. Nel secondo pomeriggio ci spostavamo in biblioteca o in sala studio e la sera andavamo a cucinare a casa di chi abitava più vicino, approfittandone per ricominciare a discutere. Non ci sentivamo solo dei dati, dei codici, delle matricole: la percezione collettiva e condivisa era quella di essere una comunità in divenire.

Poi è arrivato il coronavirus ed è cominciata la quarantena. Ci siamo ritrovati – come tutti – isolati, divisi e preoccupati. Non potevamo né incontrarci né fare ricerca, senza vere indicazioni. L’unica cosa che ci è stata comunicata è che avremmo dovuto seguire delle lezioni online. Certo, non sono che un surrogato della reale esperienza universitaria, inadatte alla nostra ricerca, ma capisco che in questo momento emergenziale non si possa fare altrimenti. Nulla di assurdo, se non fosse che per seguire le lezioni online bisogna potersi permettere i soldi per le bollette di internet e della corrente. Solo che i miei genitori, causa quarantena, si sono ritrovati di colpo senza alcun tipo di introito. I miei colleghi possono sempre fare affidamento alla borsa (più di 1000 euro al mese), ma io no. Confrontandomi con i colleghi del dottorato, ho chiesto agli organi competenti se fosse possibile per esempio avere una borsa emergenziale o qualche altra forma di sussidio.

Ovviamente tutti i tentativi si sono rivelati dei buchi nell’acqua.

Alla fine, questi colleghi, questi amici, hanno deciso di versarmi parte del loro stipendio per permettermi di pagare l’affitto, le bollette, la spesa. Sono dovuti intervenire loro, per sopperire a una mancanza delle istituzioni competenti. Grazie a loro sto sopravvivendo e sto facendo sopravvivere anche i miei, che in questo momento non possono permettermi di mandarmi soldi. E chissà quante ricercatrici e quanti ricercatori si trovano nelle mie stesse condizioni, magari senza che per loro si sia innescato un meccanismo di solidarietà da parte dei colleghi.

Noi stiamo lavorando gratis per voi, voi non potete farci morire di fame.

Dunque, chiamateci Ismaele, “Dio ascolta”, in ebraico, ma chi, realmente, ci ascolta?