Domenica 13 dicembre doveva essere il mio terzo giorno di lavoro in un punto vendita centralissimo, a Milano, di una nota catena di profumerie e invece sono rimasto a casa a cercare di capire perché dal negozio abbiano chiesto la mia sostituzione.
Venerdì 11, durante la prima giornata di lavoro, ho fatto presente che, a mio parere, le ispezioni di borse e zaini dei dipendenti, avvengono non seguendo le modalità previste dall’art. 6 della legge 300/1970 (lo Statuto dei lavoratori). Ovvero vengono effettuate sistematicamente su tutti i dipendenti dell’azienda e sui promoter che lavorano nel negozio per conto di agenzie e non, come recita la legge, «con l’applicazione di sistemi di selezione automatica». Ho segnalato inoltre che nella maggior parte dei punti vendita milanesi della catena (non ho esperienza diretta e non ho raccolto testimonianze dai punti vendita delle altre città), il controllo avviene all’uscita del negozio, davanti a colleghi di lavoro e clienti, non tutelando quindi «la dignità e la riservatezza del lavoratore».

Ho provato a spiegare che, per esempio, un dipendente potrebbe essere malato e avere in borsa dei medicinali e che le ispezioni effettuate con queste modalità sono una gravissima violazione della privacy e possono pregiudicare irrimediabilmente la serenità del lavoratore. Una responsabile, non sapendo minimamente di cosa stessi parlando, mi ha liquidato rispondendo che quello è un regolamento interno e che lì si fa così. A quel punto, dopo aver ribadito che la loro condotta era a mio parere grave, ho aperto il mio zaino e mostrato il contenuto, facendo presente però che avrei approfondito la questione nelle sedi opportune. Sarà un caso ma, sabato 12, a metà del secondo giorno di lavoro, ho ricevuto la telefonata della mia agenzia che mi comunicava che il negozio aveva chiesto – senza motivarla – la mia sostituzione per la giornata successiva.

Considerato che ho raggiunto gli obiettivi di vendita richiesti da negozio e agenzia e che il responsabile del reparto in cui ho lavorato mi ha assicurato di non aver chiesto la sostituzione, mi viene naturale pensare che la richiesta sia arrivata direttamente dalla direttrice del punto vendita e che la motivazione non possa che essere la mia obiezione sulla questione dei controlli.

Il mio allontanamento è, credo, segno chiaro che i dirigenti sanno bene che quello che fanno non è legittimo. Sanno bene, e se ne fregano, che quello che fanno è umiliante. Sanno bene, e se ne fregano, che trattare i propri collaboratori come potenziali ladri, significa calpestare ogni giorno la loro dignità. Sanno bene, e se ne fregano, che nessuno di loro alzerà mai la testa, perché nessuno oggi può permettersi di perdere il lavoro.

Anche io non mi sarei potuto permettere di fare quello che ho fatto, perché ho bisogno di lavorare, ho un affitto e delle bollette da pagare e probabilmente la mia agenzia non mi richiamerà in futuro, perché chi parla di diritti è sempre una persona scomoda. Eppure non ho potuto fare a meno di alzare la testa, non ho potuto fare a meno di dire le cose come stanno, non tanto per me – che sapevo che sarei stato cacciato – ma per tutte quelle persone che non hanno la possibilità o il coraggio di reagire. La questione non finisce qui, io non mi arrendo.

Mattia Da Re, Milano