Nello spazio di 48 ore proprio in Liguria abbiamo registrato due esempi di uso propagandistico della storia.

A Savona la signora Sindaco intervenendo ad una cerimonia dedicata a Pertini ha ritenuto di doverne omettere le vicende legate all’antifascismo e alla Resistenza descrivendo l’ex- Presidente della Repubblica come un tranquillo avvocato di provincia prestato alla politica; a Varazze un consigliere regionale (ex-Sindaco) parlando del libro scritto da un esponente socialista su Matteotti ha pensato bene di dimenticare come la fine della vita di Matteotti fu dovuta ad un assassinio perpetrato dalle squadracce fasciste.

C’è da riflettere perché sicuramente non siamo davanti a distorsioni dovute da ignoranza dei fatti.

In realtà stiamo assistendo ad una evoluzione di quel revisionismo storico sorto fin dagli anni’80 (pensiamo a Nolte) in reazione ad un “uso politico della Storia” che sicuramente, nel caso delle vicende dell’antifascismo e della Resistenza in Italia, ha attraversato un lungo periodo del dopoguerra: un “uso politico della Storia” dovuto e giustificato dalle particolari condizioni di “bipartitismo imperfetto” che ha contraddistinto il nostro sistema politico, coinvolgendo anche (e fortemente) l’intero impianto della riflessione dell’intellettualità italiana, all’epoca per la gran parte impregnata di storicismo .

Anche lo stesso fondamentale saggio di Claudio Pavone sulla “moralità” della Resistenza non è stato poi utilizzato nel senso del recupero di un equilibrio storico – politico nel giudizio complessivo ma usato, al momento del mutamento del quadro internazionale e del relativo smottamento della “Repubblica dei partiti” come punto di giustificazione dell’affermarsi di un revisionismo “a maglie larghe” attraverso le quali non sono passati soltanto i romanzi di Pansa ma anche – e soprattutto – la logica dei “ragazzi di Salò”.

Ci troviamo ormai ben oltre quella fase storica e stiamo approdando ad un particolare uso propagandistico della memoria storica: il metodo utilizzato in Liguria nel corso delle due occasioni citate da parte di esponenti istituzionali rappresenta un fenomeno che arriva da più lontano e interessa ormai l’insieme del “modello politico”.

Più o meno da trent’anni, infatti, il “modello politico” italiano ha mutato segno, da luogo di forte partecipazione politica e sociale a terreno di “esclusione” per larghe fette di popolazione lasciata, in particolare dalle diverse forme di comunicazione che avevano accettato la filosofia della “fine della storia”, in balia di una forma continua di propaganda basata sulla paura e sulla miseria culturale.

Questi fattori hanno fatto cadere la realtà di una cultura politica” forte” che sbarrava la strada a certi modelli e a determinati meccanismi comportamentali anche usando, perché no, l’ideologia ma soprattutto proponendo un sistema di valori non destinato , nella loro espressione, semplicemente alla raccolta indiscriminata del consenso.

L’analisi dei fatti di cui si sta discutendo deve servire a far riflettere su quando e come sia stata abbandonata la strada della ricerca storica intesa come elemento fondativo dell’analisi politica.

Le possibilità di riprendere questo metodo passano attraverso un progetto di vera e propria riorganizzazione culturale dell’agire politico.

La cultura, anche quella classica degli “studi solidi” di definizione gramsciana non può essere usata per costruire fittizie “élite” ma come fattore di pedagogia di massa.

Il rapporto tra cultura e politica da realizzarsi attraverso il passaggio dell’analisi storica deve essere ancora considerato come il vero e proprio punto di discrimine di fondo nella diversa qualità che si rinviene nel proporre l’intervento pubblico come risultato del nesso tra teoria e prassi in luogo dell’improvvisazione retorica destinata all’immediatezza dell’intreccio perverso tra opportunismo e utilità.