Siamo tre detenuti del carcere romano di Rebibbia «Nuovo Complesso». I nostri destini si sono incontrati in questa triste realtà e ci troviamo a combattere ogni giorno contro indifferenza, lungaggini di qualsiasi tipo e menefreghismo.

Ascoltando la trasmissione «Matrix» di qualche giorno fa, dove si discuteva del «caso Cancellieri» e del problema carcerario, abbiamo riscontrato alcune «anomalie» nelle parole del presidente del Dap sul nuovo decreto giustizia approvato ad agosto. Abbiamo sentito affermare di diminuzione dell’afflusso detentivo, di celle aperte per otto ore, di facilitazioni lavorative per tutti e di interventi sanitari più rapidi. Vorremmo poter controbattere alle falsità dichiarate ma sappiamo che le nostre verità vissute all’interno della «macchina carceraria» sono state, sono e saranno sempre censurate dagli organi preposti.

Proprio dagli interventi sanitari vorremmo iniziare: Come può entrare in carcere un cieco? Persino il Direttore del carcere si è stupito (soprattutto perché non può gestirlo). Come può un giudice convalidare la misura cautelare detentiva a un non vedente senza aver richiesto i dovuti accertamenti? All’ingresso gli è stato tolto anche il bastone ovviamente… da non credere! Non sentirti male tra queste mura…! Siamo al punto che se hai mal di testa o un mal di denti oggi, per problemi burocratici, avrai un analgesico dopo uno o due giorni, quando ormai magari non ne hai più bisogno. E quell’analgesico non puoi tenerlo neanche in previsione di un nuovo malanno, se te lo trovano in una perquisizione ti fanno anche rapporto, perdendo 45 giorni di liberazione anticipata. Le visite specialistiche sono miraggi. Per la radiografia passano mesi, dopodiché, per la stessa visita, si ricomincia l’iter. (…)

Per quanto riguarda gli ingressi negli istituti giudiziari ci accorgiamo che si continua a entrare con lo stesso ritmo da agosto a oggi.

Sempre secondo il nostro modesto parere la legge Fini-Giovanardi va profondamente modificata. Vorremmo far riflettere le istituzioni sulla dubbia necessità di arrestare ragazzi ventenni perché trovati in possesso di poco più di due «spinelli»; questi ragazzi che dovrebbero essere reinseriti, si trovano a dover affrontare una realtà che non meritano (non è il nostro caso…) e che amplifica quel lato oscuro che ogni essere umano ha in sé. (…) Nella maggior parte dei processi odierni vengono condannati esseri umani a misure cautelari in carcere senza aver raggiunto la prova certa oltre ogni ragionevole dubbio. Senza considerare che una buona percentuale di quelle persone vengono poi assolte… bisogna fare qualcosa, è doveroso!

In merito all’«apertura delle celle», le otto ore dichiarate dal Presidente del Dap in realtà sono sei, delle quali quattro all’aria aperta e, nelle rimanenti due è consentito il solo passeggio nel corridoio di reparto senza poter usufruire delle salette ricreative, perché, a causa del sovraffollamento, sono adibite a fatiscenti dormitori che contengono fino a sedici letti, travalicando ogni principio morale e igienico sanitario.
Il lavoro in carcere? È solo per pochi «eletti». Anche qui prevalgono le raccomandazioni! L’Italia è uno dei pochi Paesi emancipati dove è consentita una sola telefonata di dieci minuti a settimana e sei ore di colloquio con la famiglia ogni mese. In molti penitenziari è esistente ancora il vecchio bancone divisorio di un metro e mezzo di larghezza da tempo abolito e in alcune sale c’è persino l’orribile vetro divisorio che non consente il contatto con i propri cari, necessario a ogni essere umano. Come si può mantenere un solo rapporto affettivo, magari con i propri figli, in queste condizioni? (…)

Invitiamo a sostenere e a portare alla ribalta tali problematiche, mettendo a nudo le verità sottaciute sulle invivibili condizioni carcerarie; ma a che servono le autorità che ogni tanto vengono a farci visita (guidate nei reparti migliori)? Sembrano bambini in gita nei giardini zoologici.

Fortunatamente, avendo «visitato» pochissimi altri istituti penitenziari, possiamo garantire che Rebibbia è uno dei migliori carceri ma, per sentito dire, sappiamo che in altri istituti queste realtà negative sono ancor più accentuate. Ci si toglie la vita qui, figuriamoci altrove!

Per ovvi motivi di probabili ritorsioni da parte dell’amministrazione penitenziaria chiediamo di non divulgare il nome del mittente, potrebbero risalire a noi e «spedirci» nei posti più remoti della nostra penisola, succede anche questo e, per correttezza, vi informiamo che questa lettera è stata spedita anche ad altri giornali.

Tre detenuti in attesa di giudizio