Caro Sindaco, voglio sperare che il suo pensiero sia stato frainteso. E che in fondo Lei, a modo suo, volesse proteggere, tutelare quelli che chiama «i veri poveri». Mi permetto di cercare un dialogo su questa ipotesi, che a mio avviso è criticabile sotto tanti punti di vista. E glieli sottopongo con l’auspicio della sua attenzione.

Tutta la storia dell’emarginazione sociale ci ricorda i luoghi separati (dalla vita degli altri…). E la stessa storia ci racconta gli esiti di questa concezione, non le parlo dei manicomi, delle carceri, delle istituzioni totali che relegano la persona tutta (la sua energia, la sua umanità, il bisogno di condivisione) in un luogo deputato, circoscritto. Lo sfioro solo, sapendo che la sua proposta aveva in sé un significato di accoglienza, una cittadella in grado di ospitare «in tranquillità» una enorme mensa per tutte le persone che vi accedono.

La molteplicità dei bisogni è una realtà che tanti chiamano «degrado», altri «disagio», altri ancora «frutto di povertà e isolamento, di solitudine». Di sostantivi e aggettivi possiamo trovarne tanti e sarebbero comunque insufficienti a spiegare la complessità di queste situazioni, che portano tante persone a vivere in strada, a dormire in una branda quando è possibile e intorno a loro si muovono istituzioni, fondazioni, associazioni laiche e religiose, mondo del volontariato, raccoglitori di coperte… e tanto altro ancora. Operano anche per chi queste persone non le vede, in quanto inaccessibili e invisibili: straniere allo sguardo dei più.

Creda Signor Sindaco, è davvero difficile pensare che sarebbe la stessa cosa, anzi migliore un grande posto in periferia, per chi mangia oggi nelle mense in centro Mestre, con la sensazione di vivere un momento insieme e dentro Mestre e che una volta uscito può osservare chi nella città si muove, passeggia, guarda le vetrine, fa compere: e quindi vive.

Forse è solo una vita per finta quella che osserva sapendo che non è la sua, ma l’isolamento sarebbe peggio, l’insieme degli insiemi della povertà, sommata in uno stesso luogo, non fa «compagnia, aggregazione», ma crea invece isolamento e solitudine, accentuando l’estraneità con il resto del mondo.