Sto seguendo con interesse il confronto a più voci avviato su «Il Manifesto» rispetto al deprimente spettacolo – sarebbe meglio dire disgustoso avanspettacolo – delle Regioni, apparso evidente con la drammatica crisi sanitaria esplosa con la pandemia da Covid19. Spettacolo che lascia ipotizzare “la ragionevole follia di mettere fine al regionalismo” (D’Orsi, Il Manifesto, 13.11.2020). D’Orsi sostiene che “dobbiamo chiederci seriamente, se l’introduzione della Regione nell’ordinamento della Repubblica non sia stato un errore dei Costituenti” e propone di lanciare una campagna per una riforma dal basso della Costituzione dandoci come obiettivo massimo l’eliminazione dell’Ente Regione e la rivitalizzazione delle Province.

Mi chiedo: i Costituenti erano marziani quando scrivevano che la Regione era una articolazione fondamentale dello Stato nel processo di decentramento e di partecipazione alla gestione dei servizi allora accentrati? Non è stata la sinistra a spingere verso un progetto di riforma generale dello Stato dove la funzione di progettazione e pianificazione restasse agli organi centrali, quella di gestione alle Regioni e quella di erogazione ai Comuni? Abbiamo forse dimenticato che l’istituzione regionale ha comportato lo scioglimento di decine e decine di enti inutili, che impedivano ogni forma di trasparenza e controllo decentrato?

L’avvio funzionale delle Regioni nel 1970 evidenziò subito due contraddizioni di fondo: le deleghe regionali e provinciali si sovrapponevano in vari ambiti, lasciando aperte soluzioni contraddittorie da parte delle due istituzioni; la consistenza territoriale e demografica dei comuni era ed è tuttora così macroscopicamente diversa da rendere impossibile una razionale erogazione di servizi in comuni con popolazioni che possono variare da meno di cento a oltre un milione di abitanti. Tutti, grandi o piccoli, avevano e continuano ad avere la stessa conformazione politico amministrativa e tecnico strutturale. Una contraddizione che convinse molte regioni – non solo quelle rosse – ad avviare l’istituzione dei Comprensori, organismi gestionali di territori omogenei, comprendenti più comuni, di consistenza demografica tra 50 mila e 200 mila abitanti.

Questi erano amministrati da consigli direttivi nominati dai comuni che ne facevano parte e avevano la delega all’erogazione dei servizi. Insomma un tentativo di transitare verso una nuova municipalità, più razionale ed efficiente, mantenendo il rapporto diretto con i cittadini. Furono proprio questi gli ambiti sui quali si modularono le Unità Sanitarie Locali di prima generazione, né provinciali e men che meno aziendali, cioè quelle antecedenti alla riforma “De Lorenzo”, che, prima di essere arrestato si inventò le Aziende Sanitarie. Furono in molti, da sinistra, a sostenere che le province potevano essere abolite e le loro competenze passare in parte alla regione e in parte alla nuova forma di municipalità.

Era tutto sbagliato? Forse varrebbe la pena, prima di riesumare gli scheletri provinciali, che di certo non sarebbero immuni dai boiardi e cacicchi che hanno infestato e degenerato la politica regionale – più in generale la politica a tutti i livelli – andare a rivedere la legge 382/1975 e il DPR 616/1977.

Potrebbe essere un punto di partenza per ripensare alla necessaria e indispensabile riforma dell’organizzazione dello stato – centrale, regionale, locale – su cui chiedere a uno o più gruppi di lavoro di soggetti del mondo universitario e della pubblica amministrazione una proposta organica. Proposta da offrire alla politica al fine di riequilibrare rapporti istituzionali scesi a livelli indecorosi. Bersani al riguardo pensa a un “tagliando” sulle autonomie che passi per una nuova bicamerale (Il Manifesto, 19.11.2020), sostenendo anche lui un rilancio delle Province. Io resto convinto che i livelli organizzativi dello Stato siano tre e che quello regionale e locale siano fondamentali.

C’è sicuramente una caduta intollerabile nel livello intermedio, ma è stato determinato dalla svolta presidenzialista delle regioni, con l’elezione diretta dei “governatori” e dalla riforma del titolo V della costituzione. Ma questo non si risolve spostando i “governatori” dalle Regioni alle Province.

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