Cari Amici,

il ritiro da Kabul degli Stati Uniti e dei loro alleati della NATO, compresa l’Italia, muta la situazione del mondo e ci costringe a ripensare le strategie per conservarvi la vita e instaurarvi la pace. In particolare ci induce a chiederci se rimane valido il progetto di una Costituzione della Terra e come lavorare per promuoverne l’attuazione.

Il dato più rilevante è la sconfitta dell’unilateralismo americano evidenziata dalla rinunzia al dominio sull’Afghanistan, in cui si sono trovati concordi sia Trump che Biden. Ciò non vuol dire per gli Stati Uniti mettersi sul piede di casa e chiudersi in un neo-isolazionismo rinunziando al loro intento egemonico; piuttosto essi intendono concentrarsi  sul rilancio interno evitando interventi in ogni parte del mondo il cui costo in vite americane e risorse si è dimostrato troppo elevato. Resta l’incubo della Cina, ma altre priorità sono lasciate cadere, a cominciare dall’Europa e dal Medio Oriente.

Tutti i problemi si pongono pertanto in modo nuovo ed è chiaro che per portare a buon fine una Costituzione della Terra non basta che essa sia ben concepita e propugnata in via di principio, ma occorre identificare e affrontare i nodi e le situazioni che più le si oppongono e che, se non si modificano, ne rendono impossibile l’instaurazione.  Uno di questi è per l’appunto la politica americana, che resta determinante ai fini della costruzione condivisa di un nuovo ordine mondiale, ma altrettanto cruciali sono il problema di Israele, del mondo arabo, dei talebani, del rapporto con la Cina, dei confini sbarrati al popolo dei migranti; ognuna di queste situazioni richiede da parte nostra un’attenzione e un’elaborazione specifica, con l’avvertenza che questioni apparse finora come insolubili si evolvono nel tempo e possono aprirsi a nuove possibilità.

Si prenda la “questione israeliana”. Secondo la rivista “Limes” che le ha dedicato un numero speciale, il quinto del 2021, essa ha fatto irruzione sulla scena sovrapponendosi alla questione palestinese proprio quando i dirigenti dello Stato credevano di averla chiusa. Lo avevano fatto con la  promulgazione della legge fondamentale del 19 luglio 2018 che aveva consacrato Israele come lo Stato nazionale del popolo ebraico, con il congelamento, avallato dagli americani, del processo di pace e con la definitiva esclusione di ogni ipotesi di una “Palestina indipendente in qualsiasi forma ed entro ogni immaginabile frontiera”, liquidando così la mitica soluzione dei “due Stati”. A riaprire la questione è stato il recente esplodere del conflitto tra ebrei e arabi a Gerusalemme e in Cisgiordania e lo scambio ineguale di bombe e missili tra Israele e Gaza; dopo questi eventi, scrive la rivista diretta da Lucio Caracciolo,  “vacillano le certezze dello Stato ebraico”, essendo venuto meno all’esterno l’incondizionato sostegno  americano a tutte le politiche di Israele, che i democratici, a differenza dei repubblicani, non sembrano più disposti a concedere, ed essendosi  rivelata all’interno sempre più difficile la convivenza  tra le diverse componenti della società israeliana – che “Limes” chiama le tribù – una delle quali non ebraica (gli arabi), un’altra ultraortodossa, tutte e due in conflitto con lo Stato, un’altra, quella maggioritaria, costituita dagli ebrei secolari (laici) mentre l’ultima è quella degli ebrei nazional-religiosi.

Secondo la rivista questo problema, per cui “in discussione è la ragione statuale di Israele” e anche, si può aggiungere, l’ordine futuro del mondo, non ha soluzione, o una soluzione solo provvisoria, anche se di un “eterno provvisorio”, come sarebbe proprio di Israele. Ma si può lasciare senza soluzione un problema di questa portata? Come ha scritto su “Limes” Mordechai Kedar, un analista israeliano colonnello dell’esercito, c’è una componente religiosa che determina e attraversa ogni aspetto della crisi, di cui però non si discute mai in Israele e in Occidente “perché si tratta di società moderniste liberali atee e/o laiche che non attribuiscono centralità alla religione e si sentono a disagio nel trattare questioni confessionali e in particolare quelle relative all’Islam” (il saggio è dedicato al jihad che “ci è entrato in casa”). L’osservazione è giustissima, e soprattutto lo è riguardo alla componente religiosa dell’ebraismo che non si osa affrontare per l’interdizione derivante dalla tragedia dell’antisemitismo e della Shoà, che è sempre presente alla coscienza e mette in crisi ogni linguaggio. Tuttavia escludere le componenti religiose dalla ricerca di una soluzione politica della questione israeliana e palestinese vuol dire rinunziare a risolverle e cadere in un fatalismo dai rischi mortali; tacere della religione vuol dire ignorare la natura teologica – per non dire teocratica – dello Stato di Israele, la sua rivendicata derivazione biblica, la legittimazione sacrale del possesso esclusivo della terra, l’imputazione alla volontà divina del rapporto di inimicizia con gli altri popoli; ma vuol dire anche ignorare le motivazioni assolutistiche del “rifiuto arabo” e l’onda lunga che dalla cosiddetta “guerra santa” o jihad islamico giunge fino al terrorismo.

Questa rimozione di elementi determinanti del problema rende inappellabile la sentenza di “Limes” che in termini di razionalità geopolitica non intravede soluzioni e dichiara impossibile, se non in un provvisorio che magari può essere eterno, la convivenza tra israeliani e palestinesi nello Stato ebraico e più in generale tra le quattro tribù che lo abitano. Quanto a noi pensiamo che vadano esperite tutte le possibilità della politica e crediamo all’umanesimo delle religioni e alla loro capacità di aggiornare il loro messaggio per fedeltà alle loro stesse premesse.  C’è uno stereotipo che fa delle fedi religiose il regno dell’immutabile ma, come dice l’esperienza, esse  sono in grado di cambiare se stesse per rispondere a problemi nuovi. Questo vale per l’Islam e la sua lettura del Corano, come hanno mostrato nella loro critica all’estremismo violento i più grandi sapienti musulmani, nella loro lettera del 24 settembre 2014 ai capi terroristi del cosiddetto Stato islamico (la si può trovare sotto il titolo L’Islam non avanza con la spada nella Sala III del sito “La biblioteca di Alessandria” Il Dio che divide),  ma vale anche per le altre due cosiddette religioni del Libro come hanno mostrato le riletture della Scrittura che hanno portato alla conversione della Chiesa cattolica che ha abbandonato il connubio tra religione e potere politico ed è giunta  fino all’annuncio oggi proclamato di un Dio non violento e di una salvezza capace di abbracciare credenti e non credenti di ogni famiglia della Terra (si veda nella stessa Sala il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune e nel sito “Chiesadituttichiesadeipoveri” la prefazione di Raniero La Valle.

Il Dio inedito, al libro di prossima uscita  di Enrico Peyretti Non ho scoperto nuove terre). Ma ugualmente ciò può avvenire per Israele e il suo rapporto  con l’ebraismo, senza nulla togliere alla fede dei Padri. È una pista di ricerca che può essere seguita in questa direzione in dialogo con i credenti ebrei. Lo stesso è a dirsi  per altri problemi aperti, che vanno affrontati senza censure precostituite: nel perseguire un nuovo ordine sulla Terra nulla può esserci estraneo di umano.
Con i più cordiali saluti