L’enfasi e la retorica da un lato e la accurata rimozione dall’altro sembrano alle volte la cifra di tanta parte della politica italiana. A proposto di rimozione è semplicemente stupefacente il grande silenzio sulle dichiarazioni di Giorgia Meloni a proposito del parlamento, della repubblica presidenziale con l’elezione del capo dello Stato a suffragio universale e diretto, dell’Assemblea costituente. Intendiamoci: Matteo Salvini e Silvio Berlusconi hanno immediatamente ed entusiasticamente aderito alle proposte della leader di Fratelli d’Italia; ma, per il resto, silenzio.

Di che cosa stiamo parlando? Ha detto Giorgia Meloni recentemente a Roma: “Vogliamo lavorare per la madre di tutte le riforme: uscire dal pantano della repubblica parlamentare ed entrare nella repubblica presidenziale”. Ha aggiunto su La Stampa: “dovremo ragionare intorno all’istituzione di una Assemblea costituente da eleggere contestualmente alle prossime elezioni politiche”. Infine, a proposito dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, ha affermato: “Vogliamo un patriota!”.

Andiamo per ordine (di importanza). Si propone l’Assemblea costituente. Per definizione tale Assemblea ha un potere assoluto, appunto, costituente, cioè che instaura un nuovo ordinamento costituzionale che sostituisce quello precedente. Storicamente si tratta di un passaggio traumatico fra un vecchio e un nuovo ordine. In parole povere l’Assemblea riscrive la Costituzione. Siamo perciò davanti a una proposta che, dopo più di settant’anni di attacchi alla Costituzione del 1948, vedrebbe finalmente realizzati i sogni di tutti coloro che hanno operato per demolire – non riuscendoci – il più grande risultato della Resistenza e della lotta di Liberazione nazionale.

Per Giorgia Meloni la repubblica parlamentare è un pantano. I poteri del parlamento italiano, già svuotati da una compagine di deputati e senatori sempre meno corrispondente alle scelte dei cittadini, perché prevalentemente nominati e scelti dai cittadini – attraverso leggi elettorali che, in base a un presunto principio di governabilità, hanno progressivamente demolito il principio della rappresentanza, umiliati da un uso dei decreti legge abnorme e profondamente irrispettoso dell’art. 77 della Costituzione, stravolti dalla recente riforma che ha dimezzato il numero dei parlamentari, questi poteri – dunque – verrebbero definitivamente e formalmente ridotti al lumicino dall’elezione a suffragio universale diretto del Presidente della Repubblica, che presiede il Consiglio dei Ministri.

Si compirebbe così la parabola avviata nel 2019 dalla richiesta di Matteo Salvini dell’uomo forte al potere, rilanciata qualche settimana fa da Giorgetti (“Voce dal sen sfuggita poi richiamar non vale: non si trattien lo strale, quando dall’arco uscì”: Pietro Metastasio), che auspicava un presidenzialismo di fatto; una richiesta, nello scenario della grande crisi che stiamo attraversando, sostanzialmente sostenuta da un immaginario pubblico costruito in gran parte dai media che vede in qualche modo l’attuale Presidente del Consiglio (indipendentemente da un equilibrato giudizio sui lati positivi e negativi di tale presidenza) come salvatore della Patria.

Con l’entusiastico e autorevole consenso del costituzionalista Sabino Cassese, che parla esplicitamente di “democrazia decidente” si chiude così il cerchio di una proposta che sconvolgerebbe l’assetto repubblicano relegando definitivamente nella soffitta dell’archeologia politica concetti e strumenti della partecipazione popolare, svuotando di poteri l’opposizione, riducendo il concetto stesso di democrazia alla sola ginnastica quinquennale del voto alle elezioni politiche. Più che democrazia decidente, sembra una democrazia decadente. Detto in due parole: verrebbe definitivamente messa sotto tutela la democrazia italiana, oggi ferita dal drastico calo di rappresentanza dei cittadini da parte dei partiti in quanto tali (lo stesso Cassese qualche settimana fa ricordava che oggi gli iscritti ai partiti non sono più di 700mila, mentre negli anni del secondo dopoguerra, quando la popolazione italiana contava 46 milioni di persone, erano oltre 4 milioni), dal crollo di credibilità del sistema (docet l’astensionismo alle ultime elezioni amministrative), dalla concorrenza delle cosiddette democrazie illiberali (vedi fra le tante l’Ungheria e la Polonia).

D’altra parte il modello presidenzialista non è del tutto assente nell’attuale struttura istituzionale del Paese; sindaci e presidenti di Regione sono eletti a suffragio universale e diretto con conseguenze drastiche sul piano della vita democratica: svuotamento di poteri dell’opposizione, scomparsa della partecipazione popolare, personalizzazione della politica (conta sempre meno il partito, cioè una comunità coesa attorno a un determinato bagaglio ideale e a uno specifico programma, conta sempre più la persona da eleggere comprese le sue caratteristiche caratteriali, la sua capacità oratoria e, specialmente, la sua privata rete di relazioni). Si prenda ad esempio di tutto ciò la sconcertante gestione della pandemia nel 2020 nella Lombardia di Attilio Fontana, il ruolo “eccentrico” del Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, le traversie della Regione Calabria, l’immedesimazione della Regione Veneto nella figura di Luigi Zaia. Per di più nel caso specifico delle Regioni c’è da aggiungere la spinta centrifuga che tale meccanismo ha introdotto rispetto al tema dell’unità nazionale e al disposto dell’art. 5 Cost. (Repubblica una e indivisibile) capovolgendo il principio di autonomia da solidale a concorrenziale. Per dirla in breve, oggi Comuni e Regioni vedono una concentrazione di potere sulla singola persona senza alcun significativo contrappeso e con un sovrappiù di autonomismo localistico, personalistico, competitivo e alle volte rissoso che ha aggravato le già pesanti differenze territoriali storicamente presenti nel nostro Paese, a cominciare dalla questione meridionale.

Dall’altro lato, silenzio. Un silenzio tanto più inquietante quanto più la proposta avanzata da Giorgia Meloni non è un maquillage costituzionale ma un’idea di revisione radicale, se non di riscrittura, che va letta nell’ambito di quell’orizzonte sovranista che sta mettendo in discussione i fondamenti dell’assetto istituzionale non solo dell’Italia, ma anche dell’Unione Europea. È il disegno dell’internazionale sovranista che compone una sorta di nazionalismo 2.0 con l’idea di Europa-fortezza, cioè una dimensione nazionale e continentale che vede nell’altro il nemico, il pericolo, l’inquinatore della purezza del popolo.

Si legge così la perentoria affermazione “Vogliamo un patriota!”. Che vuol dire “patriota” nel vocabolario della Meloni? Questa parola, infatti, accomuna l’intero schieramento politico e sociale ma ha un significato diverso, se non opposto, a seconda di chi la pronuncia. Nelle forze democratiche il patriottismo indica amore per la propria nazione non disgiunto dal rispetto per gli altri popoli e dalla volontà di pace. Il patriottismo per le forze di destra radicale indica supremazia della propria nazione, rivalità verso gli altri Paesi, inclusione della scelta della guerra per comporre tale rivalità, in altre parole: nazionalismo. E il nazionalismo – per chi dovesse soffrire di vuoti di memoria – è la ragione essenziale che ha portato a entrambi i conflitti mondiali. Per fare un esempio, è stato patriottismo quello dei partigiani che hanno liberato l’Italia dall’occupazione e dalla dittatura e hanno reso possibile una pace in cui il nostro Paese, pur pagando un prezzo, non è stato smembrato né ha subito un bombardamento atomico; è stato nazionalismo quello dei fascisti che, dopo aver aggredito Spagna, Libia, Etiopia, Albania, Francia, Grecia, Jugoslavia, Unione Sovietica, hanno portato alla catastrofe l’Italia. Sia chiaro che questa non è propaganda ma semplice, fredda e rigorosa registrazione del fatto storico.

Tutto così si combina; Assemblea costituente, antiparlamentarismo, presidenzialismo, apologia dell’uomo solo al comando, nazionalismo, sono i punti cardinali di una proposta politica inaccettabile e pericolosa che va denunciata senza se e senza ma, prima che titubanze o inopportuni eccessi di prudenza ci portino in un vicolo cieco. A buon intenditor, poche parole.

*Presidente nazionale ANPI