Caro Guido, ti scriverei su una buccia, su una rozza pergamena annerita, su un manto di deserto fatto con mangime per uccelli se potessi; la parola che mi hai insegnato, quella scure dolcissima a tagliare il pane del nonsenso, il chiodo intinto nella boccetta che depone come può virgole e versi sul corpo della carta, tutto quel sonno di misteri e pruriti, di una quiete ricamata da spine, è adesso qui, a tentare un saluto, un abbraccio, un morso di stima e commozione per questo che è il tuo giorno.

Se un po’ riesco a frugare in un ossario di intuizioni, nel cesto dei marciumi costanti dove la vanità umana rotola le sue gesta, certo – pensandoti – non parlerei di traguardo, ma di novanta ferite intrecciate sul tuo animo che ormai disegnano da sole una mappa di rara grandezza.

Piove sempre sporco lo sai, le miserie correnti sono spesa goduta nel carrello, la memoria paga rette salate nel suo orfanotrofio, e se il delirio è appena ciò che resta nella fanghiglia che deglutisce ogni azione, allora la tua traccia è eterna, è come il fiore abortito nel giardino della falsità sbocciata.

Unica febbre che salva, il mancare tutto per toccare l’appena, nel mondo dove anche il caso perde la sua saliva azzittito com’è dai veleni di ogni istante, da orrori sparsi come coriandoli sul greto di un cuore già a brandelli, da sforzi macabri ad esaltare i liquami del potere.

Siamo farfalle storpie, Guido caro, perché amare la poesia è amare la frusta del tempo sulla schiena, la mano di una sorte che ci preme il collo, l’anima che combatte – citando Seferis – «per farsi nostra anima».

Quanti nani sullo scranno più alto non sanno d’essere che figuranti in una selva di lapidi, quante lingue son meno che schiuma già scaduta! La tua musica è qui, Guido, a salvarmi e a vergare le mie tempie, i tuoi libri sono arti senza stanchezza, il tuo esempio un pianeta di disordine celeste dal quale prenderò commiato solo salutando questa vita.

Auguri incantevole Maestro.