Ci preme sottolineare che l’articolo pubblicato l’8 novembre, dal titolo «La schiavitù che rende scintillante la moda low cost»  riporta un quadro erroneo e non obiettivo e pertanto lesivo dell’immagine della nostra Azienda.

Ci teniamo a specificare che H&M non produceva in nessuna delle fabbriche situate all’interno del Rana Plaza. Nonostante ciò, H&M è stata il primo marchio a firmare il Building and  Fire Safety Agreement in Bangladesh. La H&M Conscious Foundation ha inoltre deciso di fare una donazione di 100.000 dollari a scopo umanitario per sostenere le vittime e le famiglie colpite dal tragico crollo di più di un anno fa.

L’iniziativa di firmare l’accordo rappresenta un’azione che si aggiunge ad un più vasto programma di H&M in campo di sostenibilità. Per la nostra azienda agire in maniera responsabile costituisce parte integrante di tutte le nostre attività. L’obiettivo di H&M è garantire che tutte le operazioni siano gestite in modo sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale.

Tutto ciò è evidenziato anche nel nostro Codice di Condotta. H&M infatti, dal 1997, lavora unicamente con fornitori e sub fornitori che abbiano sottoscritto il Codice di Condotta dell’azienda. L’applicazione del nostro Codice di Condotta viene garantita da controlli tramite auditor esterni, al fine di verificare che venga applicato in tutti i Paesi dove l’azienda opera. H&M crede inoltre da sempre che tutti i lavoratori del settore tessile debbano essere in grado di vivere con il proprio salario.

Da molti anni siamo impegnati nei paesi di produzione esistenti per migliorare le condizioni di lavoro e rafforzare i diritti dei lavoratori. H&M ha uno dei più alti standard di sostenibilità al mondo nell’industria tessile nei confronti dei propri fornitori.

Siamo la prima azienda di moda ad aver sviluppato una strategia globale per un salario equo.Il nostro ruolo come marchio non è quello di stabilire i livelli salariali, ma di contribuire a creare un ambiente di lavoro dove i lavoratori possano rivedere e rinegoziare annualmente i loro salari, sia nelle fabbriche sia a livello settoriale e governativo, coinvolgendo  i membri dei sindacati o i rappresentanti dei lavoratori.

Questo punto di vista è condiviso dai sindacati globali e dall’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro).

Il nostro piano d’azione è un passo importante per contribuire ad un salario più equo nel settore tessile.

L’obiettivo di H&M è che entro il 2018 i nostri fornitori strategici garantiscano ai propri lavoratori un salario minimo equo. In tale data, la misura interesserà circa 850.000 operai dell’industria tessile. È chiaro che il lavoro di H&M e la continua espansione dell’azienda si ripercuotano su milioni di persone in tutto il mondo.

È pertanto nel nostro interesse cogliere l’occasione per rafforzare le comunità con le quali entriamo in contatto.

Lo facciamo investendo in progetti e affrontando questioni sociali e ambientali di rilievo per la nostra attività: ad esempio nel 2004 abbiamo stretto una partnership continuativa con Unicef per migliorare la vita dei bambini in India e in Bangladesh e favorirne la scolarizzazione, togliendoli alle piantagioni di cotone. Inoltre, in merito al caso citato del docu-reality norvegese Sweat Shop,  vi precisiamo che nessuno degli stabilimenti visitati nel programma produce capi di abbigliamento per H&M, inoltre né i produttori né le ragazze hanno contattato la nostra azienda per chiedere informazioni quando hanno registrato il programma.

Per ulteriori approfondimenti su tutte le nostre iniziative in materia di sostenibilità potete consultare il nostro sito. Rimaniamo  a disposizione per eventuali chiarimenti in merito.

Ufficio stampa H&M

La risposta di Michele Ciavarella

Prendo atto delle precisazioni importanti e non posso che congratularmi con un’azienda che ha un Codice di Condotta così rigidamente studiato. L’articolo, però, non intendeva fare di H&M il terminale di problemi gravissimi come lo sfruttamento e i disastri del Rana Plaza, né il capro espiatorio di marchi non così noti prodotti nei vari Rana Plaza del mondo.

Infatti non è mai citato in relazione a quelle situazioni. Il video della blogger norvegese ha avuto una diffusione virale in rete ed l’ho citato in quanto spia di un problema, non come esempio di inchiesta certificata. Detto questo, fa molto piacere che H&M non sia coinvolta in questi casi e che abbia un codice etico anche per la produzione delocalizzata.

Ma resto convinto che la delocalizzazione produttiva nasconda insidie che se H&M ha saputo neutralizzare con il suo Codice di Condotta, in molti altri casi ha portato alle sciagure che conosciamo. Speriamo, allora, che altre aziende possano seguire l’esempio.

Michele Ciavarella