Carissimi,

Paulo maiora canamus, intoniamo un canto più alto. Nell’aspro dibattito innescato  in Italia dalla contestata riforma della ministra Cartabia, si discute di procedure e tempi del processo penale, mentre non si ricorda la natura drammatica della giustizia penale. Il potere giudiziario è “un potere terribile”, diceva Montesquieu: l’ha ricordato  Luigi Ferrajoli nel recente congresso di Magistratura Democratica proponendo un ripensamento profondo della giurisdizione penale: perché sia conforme ai due principi imprescindibili dell’indipendenza e dell’imparzialità, ci sono due riforme da fare. La prima è quella di sottrarla al condizionamento della carriera, che secondo la proposta radicale di Ferrajoli va addirittura soppressa, rendendo tutti i giudici eguali nella diversità delle funzioni, come vuole la Costituzione. La seconda è di liberarla dall’idea del Nemico.

Oggi prevale la concezione della giustizia penale come lotta contro il crimine, e di fatto contro i loro autori. Al contrario, ha detto Ferrajoli, la giurisdizione non conosce – non deve conoscere – nemici, neppure se terroristi o mafiosi o corrotti, ma solo cittadini. Per andare alle fonti della nostra cultura penalistica, si può citare Cesare Beccaria che chiamò “processo of­fensivo” quello nel quale “il giudi­ce diviene ne­mico del reo” e “non cerca la veri­tà del fatto, ma cerca nel pri­gioniero il delitto, e lo insi­dia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quel­l’in­fal­libilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose”. Secondo Beccaria, il processo deve consistere invece nell’“indifferente ricerca del vero”. Perciò si deve escludere ogni atteggiamento partigiano o settario, non solo da parte dei giudici ma anche dei pubblici ministeri. E’ chiaro che questa concezione del processo, ha aggiunto Ferrajoli, esclude anche l’idea, frequente nei pubblici ministeri, che il processo sia un’arena nella quale si vince o si perde. Il  Pubblico Ministero non è un avvocato, e il processo non è una partita nella quale, l’inquirente perde se non riesce a far prevalere le proprie tesi.

Qui siamo oltre il tema dell’efficienza. Rifiutare l’idea del Nemico significa infatti anche escludere il carattere vendicativo della giustizia penale, che intende la pena come un risarcimento del male compiuto mediante l’inflizione di una sofferenza al colpevole. In effetti nella percezione comune giustizia non è fatta se il reo non soffre; nel patimento la società troverebbe il suo compenso e l’offeso si appaga: la sofferenza diventa in tal modo un fine dell’ordinamento. Male per male: è una morale da divina commedia, anche se Dio non è così, la Commedia non doveva chiamarsi divina e la Costituzione ha tutt’altra idea della pena come rieducazione del condannato, anche se si tratta di un’idea spesso illusoria.

Ma ciò riguarda solo la giustizia penale? Ben oltre questa, l’abbandono della logica del Nemico avrebbe una portata epocale, Fin dal principio la società si è conformata a una lotta degli uni contro gli altri, un antico frammento di Eraclito faceva della guerra l’origine di tutte le cose, di tutti re, e nella modernità è stato Carl Schmitt a sostenere che il confronto amico-nemico è il criterio e la sostanza stessa del politico. La  competizione selvaggia dell’età della globalizzazione e il precipizio della politica nelle spire del bipolarismo, del maggioritario, della lotta al proporzionale, del populismo carismatico e dell’esclusione dei perdenti ne sono il prezzo. Gli sconfitti sono scartati, papa Francesco la chiama società dello scarto, perché i soccombenti, i poveri,  non solo vi sono sfruttati ma sono esclusi, non possono lottare, di fatto non ci sono: ai naufraghi e ai migranti sono negati i porti e la terra della loro salvezza, sono restituiti al mare o alle torture dei lager libici.

Il problema è però che l’ideologia del Nemico non è più compatibile con la conservazione della società umana. Nella condizione della lotta degli uni contro gli altri né la pandemia può essere fermata nelle sue estrose varianti, né il clima può essere governato in modo da preservare la vita sulla terra, né la guerra può essere ripudiata nella sua inesauribile proliferazione; a questo punto l’uscita dalla sindrome del Nemico non è solo una questione di etica pubblica, è una questione di sopravvivenza e ci sfida a passare a un’altra antropologia. Mai nella storia si era dato quest’obbligo. Ma questo è il tempo che ci è toccato in sorte. Sta a noi prenderne atto.
Nel sito pubblichiamo la relazione di Luigi Ferrajoli.

Con i più cordiali saluti