Il 15 ottobre del 1987 il «presidente contadino» del Burkina Faso Thomas Sankara, insieme a dodici ufficiali, venne assassinato nella capitale Ouagadougou da un commando degli uomini del suo amico più stretto, Blaise Campaoré, il quale prenderà la leadership del Paese africano azzerando nel corso della sua dittatura (finita solo qualche settimana fa) tutta la «rivoluzione sankariana».

Aveva solo trentasette anni quando morì Sankara, i genitori poverissimi e di fervida fede cattolica lo volevano prete quel figlio assetato di sapere e che eccedeva negli studi, ma lui scelse la carriera militare senza essere mai un militarista o un guerrafondaio. Sosteneva che «senza una formazione e una preparazione politica un soldato è solo un potenziale criminale». Divenne presidente nell’agosto del 1983 in seguito ad un colpo di Stato in cui non ci fu spargimento di sangue.

Tra i massimi assertori del panafricanismo, Sankara sin dall’inizio della sua presidenza andò affermando il sogno di un’Africa non più colonizzata, di un Continente autonomo, gestito dai suoi popoli.

Con lui l’Alto Volta divenne Burkina Faso («il paese degli integri»), ma anche la nazione che passava da un assoluto stato di povertà ad un modello basato sulla dignità e il rifiuto dell’ignoranza. Fu una rivoluzione il sankarismo, al centro della sua opera c’era la riforma agraria, sotto gli slogan, «operiamo e condividiamo», «produciamo quel che consumiamo» si consegnarono le terre a quel 90% di agricoltori fino allora bistrattato e ridotti alla miseria.

Ma Thomas Sankara fu anche il presidente che volle combattere con forza corruzione e abusivismo, riconoscere piena dignità (e parità) alla figura della donna fino allora sottomessa ad una condizione feudale, cancellare tutti i privilegi del ceto dirigente. Diceva: «Non possiamo essere dirigenti ricchi di un Paese povero». Quando parlava all’assemblea delle Nazioni Unite i suoi forbiti discorsi erano tra i più ascoltati, ma pure quelli che facevano più scandalo, specie quando erano direzionati a condannare il neoliberismo che affamava i popoli e i Paesi più deboli. Fu il «presidente ribelle», si batté perché il suo popolo potesse vivere una vita e non sopportarla come se fosse la più tremenda delle punizioni, intraprese la lotta per il disarmo mondiale e per uno sviluppo-altro ecosostenibile, ma non dimenticò l’importanza della promozione della cultura per una nazione che vuole riscattarsi.

Sulla sua scomparsa (voluta da Stati Uniti e Francia) scrisse il giornalista svizzero Jean Zigler: «La morte di quest’uomo eccezionale è una tragedia per l’intera Africa», mentre il sociologo malgascio Sennes Andriamirado affermò: «E’ morto un presidente non come gli altri. E’ stato, forse, un incidente della storia, ma un incidente felice».