«Let me be Horace» scriveva Alexander Pope in una delle sue Epistles. La raccolta, intitolata significativamente Imitations of Horace, era una manifesta imitatio di alcuni componimenti oraziani in cui vizi e difetti della contemporaneità venivano bonariamente descritti attraverso lo schermo del grande classico latino. Nascoste, quasi incastonate in mezzo a pungenti missive rivolte a notabili inglesi e a vicende poco note dei salotti della ‘Londra bene’ del primo Settecento, rimanevano però rispettosamente salvaguardate, nel dettato di Pope, le sentenze più famose del poeta augusteo: «This is the first Virtue, Vices to abhor; / and the first Wisdom, to be Fool no more» è il distico che ‘traduce’ la celebre sententia della prima epistola oraziana, «virtus est vitium fugere et sapientia prima / stultitia caruisse», «la virtù consiste nel fuggire il vizio e inizio della sapienza è aver fatto a meno della stoltezza» (vv. 41-42). L’intonazione di garbata ironia verso la società – lontana dai modi graffianti che si trovavano invece nelle precedenti Satire – e lo spunto filosofico temperato dalle esperienze della vita sono in effetti alla base della fascinazione che il testo delle Epistole oraziane ha esercitato sui lettori e imitatori di tutti i tempi. L’autore che Voltaire definiva di una «sagesse aimable» i cui versi erano «comme on boit d’un vin vieux qui rajeunit les sens» (Epitre a Horace) voleva però consegnare a quest’opera più dell’equilibrato gioco letterario di arguta conversazione che appare in superficie.

Ha sperimentato giambo e lirica
Quello del primo libro delle Epistole, pubblicate tra il 20 e il 19 a.C., è un Orazio ormai maturo che nei vv. 1-6 della prima lettera si paragona a un gladiatore stanco che ha appeso i ferri del mestiere allo stipite del tempio, è un poeta che ha già attraversato i generi propriamente poetici del giambo e della lirica e che adesso ritorna a scrivere nello stile del sermo. Ci riprova attraverso la forma dell’epistola, per esplorare con una profondità mai toccata prima, assieme ai suoi interlocutori, la strada accidentata e umilmente provvisoria verso la felicità, quel bene vivere di cui parla a più riprese (epist. 6, 56 ; 11, 29 o ancora 15, 45): un traguardo di faticosa conquista (anche per il lettore moderno che vi si accosti senza le giuste coordinate interpretative).
Nuova luce su questa raccolta viene ora dal lavoro di Andrea Cucchiarelli, docente di Letteratura Latina all’Università La Sapienza di Roma, che ha curato per le Edizioni della Normale una nuova traduzione italiana con commento (Orazio, Epistole I, pp. 628, e 30,00), corredato di una corposa introduzione (quasi 90 pagine) in cui vengono approfonditi con chiarezza e esaustività esemplare – soprattutto se pensiamo alla selva bibliografica che circonda gli studi oraziani – i piani di destinazione dell’opera, i molteplici aspetti del rapporto che lega le Epistole al pensiero filosofico (con particolare attenzione alla matrice accademica), e infine lo stile peculiare della raccolta.
Una raccolta innovativa, a partire dal genere che inaugura, l’epistola poetica. Non esisteva infatti una tradizione greca di epistole in versi, anche se una notevole influenza su Orazio la esercitano sicuramente quelle in prosa di argomento filosofico (Platone). In ambito latino non si legge prima nulla di simile. Catullo aveva dato forma di lettera a qualche suo componimento, come i carmi 65 e 68, e prima ancora Lucilio aveva usato l’Anrede a un interlocutore come espediente di variatio nelle sue Satire; ma nessuno prima di Orazio aveva pubblicato una raccolta completa ed esclusiva di epistole in versi. Si tratta di un genere di conversazione intima, a metà tra il documento epistolare e quello autobiografico che avrà grande fortuna in epoche successive, se pensiamo ad esempio alle letterature romanze medievali con le epistole poetiche dei trovatori, come quelle di Guiraut Riquier, o al Duecento italiano con Guittone d’Arezzo, o ai secoli XVI e XVII, con le Satire di Ariosto, l’opera di Clément Marot, le epistole in versi di John Donne, e così via fino all’età contemporanea.
La maggior parte delle Epistole oraziane nasce come Gelegenheitsgedichte – il termine è nell’accezione in cui lo usava Goethe nelle sue Conversazioni con Eckermann –, sono poesie cioè suggerite da una determinata occasione e scritte per uno scopo pratico immediato, che tende però a diventare messaggio ‘universale’ in cui può riconoscersi ogni lettore, al centro di uno scambio «in cui uno parla ad uno, tanti ascoltano, e invece tutti potrebbero ascoltare» come sintetizzava magistralmente Concetto Marchesi nella sua Storia della letteratura latina.
Orazio si rivolge indistintamente a personaggi pubblici illustri come Mecenate o il futuro imperatore Tiberio, ma anche a figure poco note per lo più di giovane età, probabilmente i rappresentanti di una nuova generazione che si stava facendo strada nell’alta società della Roma augustea. In poche epistole scrive a personaggi verosimilmente reali di condizione sociale e culturale decisamente inferiore, come lo sconosciuto Vinnio Asina (epist. 13), probabilmente un centurione della coorte pretoria cui affida l’incarico di portare ad Augusto i tre libri dei Carmina appena pubblicati, esortandolo a presentarli bene, senza goffaggini; o l’anonimo vilicus, lo schiavo incaricato di sovrintendere alle attività della villa rustica in Sabina. Con lui, nella quattordicesima epistola, il poeta ingaggia una scherzosa contesa che però condensa tutta la sapientia del poeta: «certemus, spinas animone ego fortius an tu / evellas agro et melior sit Horatius an res», «sfidiamoci, se sono più bravo io a strappare le spine dall’animo o tu dal campo e se sia migliore Orazio o la sostanza» (vv. 4-5). La forma epistolare non è solo un vincolo, è anche una risorsa di invenzione linguistica, anche se più moderata rispetto alle Satire, è mezzo di vicinanza effettiva o condivisione che si esprime anche al livello del testo con la sintassi («una sintassi mossa, come in un colloquio vis-à-vis» suggerisce Cucchiarelli a proposito dell’epistola al vecchio amico Aristio Fusco) che esprime una reale vicinanza di pensieri e di affetti.

Professione di fede epicurea
Sulla adesione reale o presunta a una determinata scuola filosofica (Orazio stoico, Orazio epicureo, peripatetico o eclettico?) si è scritto praticamente di tutto. Un maestro della scuola patavina, Carlo Diano, nel suo Orazio e l’Epicureismo, stigmatizzava non senza un velo di ironia le polemiche tra dotti sulla questione: «finché io ricerco quali concetti stoici o epicurei, o che altro si voglia, si possono nelle parole di Orazio ritrovare, non c’è da obiettare nulla: la ricerca è giustificata; se si cerca che cosa fu Orazio, io, se ho da essere scientificamente corretto, vi rispondo che non lo so». Dopo un’attenta disamina di fonti e testi sulla questione filosofica nelle Epistole (nel lavoro di Cucchiarelli molto più approfondita di quella che troviamo in pur pregevoli edizioni anglosassoni, come quella di Mayer), emerge con chiarezza come non ci sia contraddizione tra il rifiuto di ogni costrizione dottrinaria della prima epistola («Nullius addictus iurare in verba magistri / quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes», «non ho obbligo di giurare sulle parole di alcun maestro, dovunque mi trascina la tempesta, io ospite giungo») e la giocosa professione di fede epicurea dell’epist. 1, 4, in cui il poeta augusteo si definisce Epicuri de grege porcum (v. 16). «L’unica costante di Orazio – conclude Cucchiarelli – non è uno specifico orientamento filosofico, qualcosa che anche lontanamente somigli all’adesione a una scuola, ma il continuo gioco dell’intelligenza, la ricerca lucida e vigile della verità (verum)», un ideale alto verso cui l’uomo bonus et sapiens deve tendere nel tratto dell’esistenza che lo separa dall’ultimo improrogabile traguardo: quella mors definita – nella chiusa dell’epistola sedicesima – ultima linea rerum.