Una delle rare possibilità che Marcel Proust aveva di comunicare con il mondo era quella di scrivere lettere. Ne redasse a migliaia dal suo appartamento di Boulevard Haussmann, dove conduceva vita da anacoreta al fine di eleggere la memoria, volontaria o involontaria che fosse, a propria Musa esclusiva. Da quella colonna di stilita che era il suo letto, venivano indirizzate ad amici e conoscenti, con il solo ausilio della governante Céleste Albaret, le richieste più eccentriche, che potevano passare dalle delucidazioni intorno all’albero genealogico della tal schiatta alla mise esibita da una nobildonna a un determinato ricevimento. Era una continua lotta sostenuta da quell’essere diafano, quasi immateriale, costretto ad alternare sedativi ed eccitanti, contro le derive di un tempo che bisognava perdere per essere ritrovato. La sua impresa immane, di moderno Sisifo dall’aspetto chapliniano, munito di bombetta ed orchidea all’occhiello, sembrava incarnare il famoso emistichio rimbaudiano «Par delicatesse / J’ai perdu ma vie».
Tali richieste erano frequentemente accompagnate dalla descrizione particolareggiata di crisi d’asma e malattie da raffreddamento che cadenzavano, con relative cure a base di suffumigi, le giornate di Proust come quelle di un ipocondriaco. Non bisogna dunque sorprendersi se l’edizione più completa della Correspondance, edita tra il 1970 e il 1993 da Plon, a cura di Philip Kolb, sia costituita di ventuno volumi. Un laboratorio alchemico della Recherche non ancora affinato da sostanze spagiriche. I temi sono infatti i medesimi, spesso appena abbozzati, e i destinatari nella finzione letteraria si accontenteranno di prestare magnanimamente un tic o un’inflessione di voce ai personaggi descritti, quasi che, solo attraverso la sfumatura variopinta di un’iride, lo scroscio argentino di una risata o la conformazione di una treccia muliebre, si potesse salvaguardare ciò che è destinato a naufragare irrimediabilmente: la quintessenza di gesti cristallizzati come il volo di una delle innumerevoli farfalle notturne che, inebriata dall’oro del pulviscolo, fuoriesce zigzagando dalle pagine di quello che il curatore ha definito «prezioso manuale del disincanto» per continuare a volteggiare intorno alla fiamma dei nostri sensi ammirati di lettori.
Ci viene in soccorso, a tal proposito, l’impareggiabile biografo George D. Painter che rilevò, sulle orme di Wordsworth, la fondamentale distinzione esistente tra fantasia e immaginazione, facendo dello scrittore un paladino di quest’ultima, in quanto «la Recherche è l’allegoria della vita di Proust, opera non di fiction ma di un’immaginazione che interpreta la realtà». D’altronde la pubblicazione della Correspondance non poteva non essere lacunosa, qualora si consideri che, sul mercato antiquario, sono apparse a più riprese lettere inedite dello scrittore, spesso di considerevole interesse sul versante sia documentario sia prettamente stilistico, sfuggite al vaglio della catalogazione. Giancarlo Buzzi nel 1996 ha allestito il «Meridiano» delle Lettere e i giorni, accogliente una stratificata selezione dell’opera curata da Kolb. In questa sede appare solo una manciata di epistole inviate da Proust a Paul Morand e alla sua futura moglie Hélène Soutzo, ora raccolte integralmente in Il visitatore della sera Lettere a Paul Morand e a Madame Soutzo (Aragno, pp. X – 340, € 25,00), ben tradotte e curate da Massimo Carloni.
Oltre alle lettere di Proust sono accolte anche le missive dei suoi interlocutori, nonché alcune significative testimonianze di Morand, ricavate da Le visiteur du soir (La Palatine, 1949), tra cui quella del loro primo incontro, avvenuto dopo che questi aveva pubblicamente paragonato le imprese di Swann a L’Éducation sentimentale. Spiccano l’Ode à Marcel Proust, contenuta nella raccolta Lampes à Arc (1919), in cui si fa riferimento all’omosessualità, accuratamente occultata, dell’autore della Recherche: «Proust, a quali festini andate dunque di notte / per ritornare con gli occhi così stanchi e così lucidi?». Proust rimane affascinato dalla figura di questo giovane diplomatico che incarnava ai suoi occhi tutto quello che lui non era riuscito a diventare, compreso l’intraprendimento della carriera auspicata dai suoi genitori: un personaggio sportivo, dinamico, estroverso, votato ai viaggi e ai piaceri, non solo di carattere mondano. Omofobo, misogino, antisemita, il globe-trotter Morand arriverà a colludersi, un ventennio dopo la morte del suo mentore, con il regime di Vichy. In tempi non sospetti, nonostante la differenza di età, formazione e temperamento, i due amici continuarono a frequentarsi e stimarsi reciprocamente (non si dimentichino le ascendenze ebraiche di Proust per parte di madre e l’impegno assunto a favore di Dreyfus).
Proust firmò la prefazione alla raccolta di racconti Tendres Stocks del 1921 (Tenere impressioni, edita da Passigli), qui presente con il titolo Per un amico, osservazioni sullo stile. Si tratta di un capolavoro di reticenza, in quanto Proust disquisisce intorno a qualsiasi argomento, lanciandosi in una serie di digressioni attinenti a canone e stile, e accenna appena al libro che dovrebbe presentare: si prende spunto dall’avversione nutrita nei confronti della concezione esegetica di Sainte-Beuve, tesa ad accostare aspetti biografici e opera di un autore (motivi presenti in Contre Sainte-Beuve, il cui nucleo originario costituirà l’abbrivio alla stessa Recherche) e la cui miopia impedì di riconoscere, in tempo reale, la grandezza delle Fleurs di Baudelaire, costretto a mendicare una recensione o la candidatura all’Académie Française. Proust cita un numero infinito di autori, tra cui Anatole France (uno dei modelli di Bergotte), il Renan delle Origines du Christianisme, Balzac, Racine, Stendhal, Dostoevskij, Nerval, Dumas, Madame de Sévigné adorata dalla nonna del Narratore, limitandosi a stilare qualche generico appunto per le novelle di Morand, paragonato a un minotauro che «dai meandri del suo “vasto rifugio” (…) spia le donne in vestaglie dalle maniche svolazzanti come ali, e che hanno avuto l’imprudenza di scendere nel labirinto» (i racconti sono imperniati intorno alle figure di tre donne). Non mancano esiti ragguardevoli, come quando rapporta il lavoro del pittore e dello scrittore a quello effettuato dagli oculisti: «Il trattamento – mediante la loro pittura, la loro letteratura – non è sempre gradevole. Una volta terminato, ci dicono: “Ora guardate”. Ed ecco che il mondo, che non è stato creato una volta per tutte, ma lo è ogni volta che sopraggiunge un nuovo artista, ci appare – così diverso dall’antico – perfettamente chiaro».
L’incontro inaugurale con Madame Soutzo avvenne il 4 marzo 1917 in un ristorante, come rievocato dallo stesso Morand in un brano estratto dal Journal d’un attaché d’ambassade, dove «i maggiordomi e i camerieri svolazzano attorno a Proust, mentre questi studia il mantello nero e il manicotto d’ermellino della principessa, come un entomologo assorbito dalle nervature delle ali di una lucciola». Proust, incantato dalla maniera di fare della nobildonna rumena, propone di ascoltare «un po’ di musica, di Franck» (uno degli ispiratori della «sonata di Vinteuil» e della petite phrase) e si avventura nottetempo alla ricerca degli esponenti del quartetto Poulet. Ma l’improvvisato concerto al Ritz, dove Madame Soutzo risiede dopo la separazione dal primo marito e dove Proust si reca in occasione di qualche rara interruzione dall’opera dispotica di decrittazione del proprio passato, non avrà luogo perché il violoncellista è ricoverato in ospedale. «Nella sua pelliccia, con la pioggia che batte, per un’ora di fila Proust parla di Flaubert. Un tale concerto non fa rimpiangere l’altro…» ammette, ammaliato, Morand. Questo platonico ménage à trois si configura per Proust come l’occasione per scaldarsi alla fiamma di quella coppia apparentemente mal assortita, che sopravvivrà agli eterni tradimenti di Morand. Madame Soutzo, cui era destinato un cammeo presente nel secondo pastiche su Saint-Simon, somigliava «a Minerva, così com’è raffigurata sulle belle miniature degli orecchini ereditati da mia madre; e della Dea della saggezza aveva anche la bellezza. Le sue grazie mi avevano incantato e uscivo soltanto per andare da lei». A Morand, in una lettera indirizzata alla moglie, riserva un ritratto ambiguo: «Non c’è nulla che eguagli il gusto dei suoi furori giacobini che franano sotto i suoi paramenti liturgici». Come suol dirsi, touché.