Sono giorni, questi, in cui le parole sono macinate senza sosta, passate al setaccio in alcuni casi in altri rigurgitate ed amplificate dai media, a volte trasformate nell’essenza, mistificate nella sostanza, devastate nell’etimologia.

Così, nella deformazione di una quotidianità che non conosce umana pietà e disdegna la coerenza morale, chiedere scusa è diventato il segno assoluto di una debolezza dell’animo e dell’essere uomo.

Ma io sono un uomo, un cittadino, un padre, un poliziotto, un sindacalista.
Sono una persona che non vive tra la porta dell’inferno e il fiume Acheronte, in quel lembo di anti inferno di dantesca memoria in cui piangono le loro colpe quegli ignavi, vissuti «senza infamia e senza lode».

A differenza di quanti, frenati da un ordinamento del personale ancora forse troppo succube delle originarie impostazioni militari, fanno fatica a dire a gran voce la loro opinione su tutti quegli episodi che vedono alcuni di noi, nostro malgrado protagonisti, io da poliziotto sindacalista mi posso esporre in prima persona.

Il sindacato di polizia , oggi accusato di conservatorismo e corporativismo non rende la mia divisa più leggera; seppur cucita sulla mia pelle, non mi impedisce di essere obiettivo sul se e quando abbiamo sbagliato; di essere critico se e quando il nostro lavoro è stato travisato da un’abile regia; di essere realista se e quando veniamo additati come ciechi e stolti esecutori materiali di ordini apparentemente sbagliati; sono … siamo lavoratori. Indossiamo una divisa ma questo non ci rende immuni, non ci rende invincibili, non ci rende inattaccabili.

La nostra divisa, la mia divisa non mi rende meno vulnerabile; come cittadino capisco lo sgomento del mio vicino di casa professore di lettere, turbato quanto me di fronte alle foto di Stefano Cucchi, preoccupato quanto lui quando sembra che la democrazia nel nostro Paese sia diventata una vittima eccellente.
Ma sono anche un uomo dello Stato e credo fermamente nel mio lavoro; di poliziotto prima e di sindacalista poi.
Allo Stato a cui ho giurato fedeltà chiedo giusta tutela e gli strumenti operativi idonei ad affrontare ogni giorno, nelle piazze e per le strade del mio Paese, la criminalità, le emergenze ma anche il disagio sociale per una crisi – di valori ed economica – che piove anche sulla mia famiglia, sui miei figli, sui miei colleghi.

Ai cittadini chiedo il rispetto per il mio lavoro, il riconoscimento della dignità della mia professione, chiamata a difendere tutte le libertà costituzionalmente garantite, anche quella di manifestare liberamente il proprio dissenso.
Ai colleghi chiedo il coraggio e la determinazione figlia della consapevolezza che il nostro lavoro è fatto anche, purtroppo, di situazioni paradossali in cui lo stress e la tensione anche emotiva può giocare brutti scherzi. Ammettere – se e quando – di aver sbagliato non è certo sinonimo di vigliacca defezione; noi siamo coraggiosi, anche nel dolore. Perché noi comprendiamo il dolore, comprendiamo il preoccupato stupore di chi si trova un fratello lavoratore con il manganello.

Alcune di quelle parole sentite in questi ultimi giorni non sono certamente rappresentative di tutti gli uomini e le donne della Polizia di Stato; sui drammi umani e sulle incongruenze della vita il sindacato, il mio sindacato, quello che rappresento ogni giorno ha il coraggio di riconoscerne la durezza e di noi, nessun potrà dire «…non ragionar di loro ma guarda e passa».

* segretario generale del Siap
(Sindacato italiano appartenenti polizia)