«Guantanamo è la barbarie del ventunesimo secolo… È l’immagine sporca di Obama e della sua amministrazione… Guantanamo sarà lo stigma per ogni americano che invochi la democrazia e invoca la libertà». Inizia così la lettera scritta da un detenuto di Guantanamo al suo legale, David Remes, giurista e avvocato dei diritti umani che ha concesso al manifesto di pubblicarla. «Perché questo silenzio? Tutti dovrebbero chiedersi perché tanta violenza nei nostri confronti. E così a lungo. I tribunali vengono messi a tacere. I giudici tacciono. Il mondo è indifferente. I media sono in gran parte assenti. Eppure è una tragica storia. Un essere umano dovrebbe essere in grado di difendersi, se la situazione continua saremmo costretti a intraprendere la più tragica e difficile, ma semplice, delle decisioni, perché non ci rimane altra opzione di fronte all’umiliazione della dignità umana», conclude la drammatica missiva.

Sono 166 i detenuti che da oltre dieci anni restano rinchiusi in questo gulag sull’isola di Cuba, spogliati di ogni dignità umana, senza avere diritto a un processo e all’habeas corpus. Centosei di loro hanno aderito allo sciopero della fame iniziato il 6 febbraio scorso, 45 tra questi sono nutriti forzatamente perché in precarie condizioni fisiche, anche durante il Ramadan appena iniziato. Il governo degli Stati uniti ha infatti respinto la loro richiesta di interrompere la pratica almeno nei giorni del digiuno islamico.

«Non abbiamo alcuna intenzione di interrompere la nutrizione forzata con i sondini e lasciar morire di fame i prigionieri durante il Ramadan. Vorrà dire che da oggi praticheremo l’alimentazione forzata durante la notte e prima dell’alba per rispetto della religione islamica», è stata la risposta del portavoce militare di Guantanamo, Robert Durand, pervenuta ai 100 avvocati che avevano presentato un ricorso per il rispetto dei diritti «etici e morali» affinché venisse interrotta, o almeno sospesa, questa «tortura crudele e inumana» della nutrizione forzata.

Una pratica crudele, che anche l’ufficio dei diritti umani dell’Onu considera tortura e violazione del diritto internazionale, che costringe il prigioniero a essere legato a forza a una sedia, soprannominata dai fornitori del carcere «cella a rotelle». Un documento del Pentagono rivela altri dettagli delle norme seguite dai militari dello Standard Operating Procedure: una maschera viene applicata alla bocca del detenuto per evitare che questi sia tentato di sputare o mordere mentre i secondini inseriscono una sonda nello stomaco, e per sedare il dolore o lo stimolo al vomito somministrano un sedativo, il Reglan, i cui effetti, a lungo andare, provocano depressione fino al suicidio.

«È meglio il rischio di morte in cui incorriamo rifiutando il cibo, è la nostra scelta, piuttosto che continuare la detenzione a Guantanamo senza speranza di uscirne se non in una bara», ha dichiarato telefonicamente un detenuto all’avvocato David Remes, che sta seguendo 13 dei prigionieri in sciopero della fame. È grazie a legali come lui che la barbarie di Guantanamo riesce a uscire fuori dalla barriera di filo spinato che circonda il carcere. Come fu nel caso di Samir Naji al Hasan Moqbel, prigioniero yemenita, rinchiuso dal 2002 senza accuse formali, che raccontò delle tremende condizioni di prigionia e della crudeltà del sondino naso-gastrico ai suoi avvocati che hanno raccolto la sua testimonianza pubblicata poi in un editoriale dal New York Times l’aprile scorso.
L’illegalità di Guantanamo è stata più volte denunciata all’amministrazione Obama: da Navi Pillar commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani, dall’associazione mondiale dei medici, da Amnesty international, ma sebbene Obama continui a promettere una soluzione, la chiusura del supercarcere non sembra all’ordine del giorno nei programmi dell’amministrazione Usa. L’ultima decisione del dipartimento di Giustizia lo dimostra chiaramente.

Tra le situazioni più tragiche c’è quella di 96 yemeniti innocenti, prosciolti già da Bush nel 2006 e dallo stesso Obama nel 2009, che ormai non hanno più speranza di uscire vivi. Da maggio sono rinchiusi in celle di totale isolamento cui si è aggiunta una recente duplice tortura. Per comunicare con il proprio avvocato o i familiari devono sottoporsi a un’umiliante perquisizione fisica per due volte: in uscita dal campo 6 e al ritorno in cella. «Non riesco ad avere più nessuna notizia dai miei clienti, pur di evitare la duplice tortura evito di chiamarli – dice David Remes – Temiamo un altro suicidio o un altro caso di morte, come fu per Adnan Latif, mio cliente, per dieci anni a Guantanamo, innocente, è uscito dal carcere in una bara». «Il Pentagono – aggiunge Remes – ha redatto una inchiesta di 80 pagine per dimostrare che Latif è morto per ’eccesso di narcotici e antidepressivi’. Una risposta per evitare la responsabilità di una morte per suicidio indotto, che resterà impunita».