Gentile presidente del Consiglio Mario Draghi,

qualche giorno fa Lei ha definito «dittatore» il presidente della Repubblica di Turchia. È stato un momento storico: il primo leader europeo importante a usare questa parola, pubblicamente. Lo dicevano un po’ dappertutto da tempo. Nei corridoi e le aule dei parlamenti europei, nelle manifestazioni e sui muri della città in cui vivo, Torino. Lo dicono anche milioni di persone in Turchia. Solo che loro finiscono in carcere, nella meno peggio delle ipotesi.

Ora ci faccia vedere come ci si deve comportare nei confronti di un «dittatore». Quando la prossima volta andrà a incontrare i suoi colleghi in Turchia, o in vacanza, Le suggerisco di fare visita ad alcune persone. Nedim Turfent, giornalista curdo di cittadinanza turca, è in carcere da circa 1800 giorni, accusato di «appartenere a un’organizzazione terroristica». Le prove? Le dichiarazioni di 20 testimoni anonimi. Tuttavia durante il processo 19 di questi hanno ritirato le loro dichiarazioni specificando che le avrebbero rilasciate sotto tortura. Il giudice le ha usate per condannare Nedim a 8 anni e 9 mesi di carcere. Il 12 maggio 2016, Nedim Turfent è stato preso in detenzione provvisoria e il giorno dopo è stato confermato il suo arresto. Il 14 maggio 2017, giorno della sua prima udienza, si trovava in carcere da 399 giorni. Gli è stato negato il diritto di partecipare personalmente alle udienze. Nedim aspetta ancora la pronuncia della Cedu.

Una piccola nota: i suoi colleghi e avvocati sostengono che Nedim sia in carcere perché ha diffuso un breve video ripreso in un cantiere edile, ad Hakkari nel 2016. Le Squadre delle Operazioni Speciali avevano fatto sdraiare per terra proni diversi operai e li insultavano e minacciavano con parole razziste. Nedim Turfent si trova nel Carcere di Alta Sicurezza di Van. L’indirizzo: Ercis Yolu Üzeri 25. KM Yüksek Güvenlikli Kapalı Ceza Infaz Kurumu Tusba / Van. Sul sito del ministero della Giustizia dice che è aperto h24.

Potrebbe andare a trovare anche Selahattin Demirtas, l’ex co-presidente del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), in carcere da circa 5 anni. Tra le accuse c’è quella di «agire per conto di organizzazioni terroristiche». In Turchia il concetto di «terrorismo» è un po’ scivoloso ed è usato parecchio. Mi scriva, ho un bel po’ da raccontare. Le prove per «incastrare» Demirtas sono molto interessanti: un testimone anonimo di soprannome “Mercek” le cui dichiarazioni hanno trovato spazio nelle carte del procuratore, nonostante secondo il tribunale penale di Ankara questo testimone non sia mai esistito. Demirtas è accusato di aver avuto conversazioni telefoniche con alcuni «terroristi», tuttavia i tabulati dimostrano che si tratta di parlamentari del suo partito. Per condannarlo sono stati usati anche i suoi discorsi pubblici e registrati in Parlamento. Infine Demirtas è accusato di «incitare all’odio» per alcuni tweet. Ma quell’account Twitter non gli apparteneva.

Nonostante la Corte Costituzionale di Turchia, la Corte europea dei diritti dell’uomo e la sua Grande Camera, in tre tempi diversi, abbiano ritenuto «politica» la sua detenzione, Selahattin Demirtas, l’ex co-presidente del secondo partito di opposizione che nell’ultima tornata elettorale ha incassato 6 milioni di voti, si trova nel carcere Tipo F di Edirne. L’indirizzo: Umurbey Mah. Büyükdöllük yolu üzeri Ticaret Borsası yanı Merkez/EDIRNE. Le proporrei di fare una visita a quei centinaia di professori che protestano da 100 giorni nel campus dell’università di Bogaziçi. Il presidente della Repubblica, il primo gennaio di quest’anno, ha deciso di nominare, ignorando le elezioni interne, un nuovo rettore. Un outsider, iscritto al suo partito, pure candidato a parlamentare.

Accademici e studenti da mesi protestano e vengono bastonati, minacciati, insultati, arrestati, denunciati e maltrattati durante la detenzione. Contro di loro è in atto un linciaggio mediatico e politico. Sono accusati di avere dei «legami con organizzazioni terroristiche», stavolta direttamente dal presidente. Il campus si trova nel quartiere di Bebek. Se chiede a qualche passante Le saprà indicare l’indirizzo esatto.
Infine, Le consiglierei di andare a trovare Berkin Elvan. Durante la rivolta del Parco Gezi, nel 2013, in località Okmeydani a Istanbul, è stato colpito alla testa da un candelotto della polizia. Dopo 269 giorni di coma, ha perso la vita, aveva 15 anni.

In un comizio elettorale, in quel periodo, il presidente era ancora primo ministro e disse: «Si tratta di un ragazzo che faceva parte delle organizzazioni terroristiche. Tutti si chiedono chi fosse a dare l’ordine alla polizia di sparare, sono stato io. La nostra polizia è stata leggendaria». Berkin Elvan dorme nel Cimitero di Ferikoy, nel vecchio quartiere armeno in cui sono nato e cresciuto.

Lei ha fatto un passo importante, ora è il momento di passare ai fatti. Con queste visite potrebbe dimostrare che in Europa ci sono leader che non sono solo «preoccupati» per la situazione in Turchia, occasionalmente bastonano il regime a distanza, ma quando incontrano «il dittatore» si allacciano i bottoni delle giacche, firmano ogni accordo possibile e si fanno ricattare e umiliare. Vorrei contare sulla Sua sincerità. Grazie

Per qualsiasi cosa non esiti a contattarmi. Distinti saluti

L’autore è un giornalista turco