Questo referendum sta lacerando il nostro mondo ed incrinando relazioni politiche, personali, umane. Compagni che, in anni lontani, avevano condiviso sogni, speranze e lotte e, più di recente, contrastato l’attacco alle conquiste comuni, adesso si trovano incasellati in schemi – cambiare/conservare, correre/ristagnare – nominalistici e manichei.

Cosa è accaduto se ci stiamo dividendo proprio su temi – Costituzione, cambiamento, decentramento – che pensavamo fossero patrimonio genetico comune della sinistra e delle forze progressiste?

Tutti noi volevamo cambiare la nostra Costituzione. Avevamo visto tante volte leggi di progresso sociale e civile impantanarsi nei meandri del bicameralismo perfetto e constatato che le forze conservatrici se ne servivano per ritardare scelte laiche e progressiste. Ma anche noi di sinistra, talvolta, ci eravamo serviti di quegli strumenti di contrasto e di ostruzionismo. Era l’altra faccia della medaglia della democrazia. Per questo ci eravamo convinti che la costituzione non la può cambiare da solo chi governa e che andassero trovate soluzioni efficaci, ma condivise.

A cosa ed a chi serve, oggi, andare da soli contro tutti?

Dobbiamo uscire dalla palude, si dice. Certo. Cambiare è sempre stata parola di sinistra. Ma noi quando ne parlavamo pensavamo di cambiare la società ed anche noi stessi, la politica, i partiti, le organizzazioni di massa. Perché avevamo visto, mentre la società cambiava, la classe politica trasformarsi in ceto separato dai corpi sociali ed i partiti mutare pelle, sradicarsi dai territori e dai luoghi di lavoro, diventare, da luoghi di partecipazione ed emancipazione collettiva, comitati elettorali per carriere politiche individuali e quindi permeabili alla corruzione. Il cambiamento riguardava, quindi, la struttura dei rapporti economici e sociali, ma anche noi stessi.

Perché, oggi, siamo così decisi sulla costituzione mentre con gli aspetti più deteriori della politica continuiamo a convivere ed anzi li premiamo purché a sostegno del Si?

Un discorso analogo si può fare sul decentramento. Dopo le oscillazioni tra centralismo e decentramento un nuovo equilibrio Stato/Regioni va costruito. Insieme ad una ridefinizione di ambiti e numero delle Regioni. Ma sappiamo che le regioni hanno subìto una degenerazione che ha coinvolto anche le sinistre.

Perché allora si lasciano invariati gli assetti, si svuotano le funzioni e si elevano i membri dei consigli a senatori con immunità?

Cari compagni, io condivido e capisco l’ansia di rinnovare anche di fronte all’avanzare del populismo. Ma questa non può essere una gara a chi arriva prima a coagulare il malessere che la crisi della globalizzazione genera.

La nostra risposta deve essere sì tempestiva, ma deve saper coinvolgere i soggetti della trasformazione con un’operazione politica e culturale insieme.

Va in questa direzione il fatto che la lacerazione di oggi segue scelte politiche che hanno diviso il Pd al suo interno, il Pd da Sel, il Pd dalla Cgil, il Pd dall’Anpi? Possibile che sono diventati tutti conservatori? E che anche gli iscritti che si allontanano e gli elettori che si ritraggono dal voto o approdano ad altre sponde politiche siano, anch’essi. tutti conservatori? E da chi allora dovrebbe venire la legittimazione a governare? Da forzature maggioritarie o da logiche referendarie e plebiscitarie, da un rapporto non mediato leader-popolo?

Cari compagni, io voterò No. Ma non lo farò perché Basta un No. Un No non basta perché domani dovremo ricucire un tessuto lacerato e ricostruire una prospettiva riformatrice.

Ma un No, penso, sia l’unico modo per mantenere aperta la porta ad un nuovo progetto di trasformazione della nostra società, ad una alternativa progressista al populismo, al cambiamento ed alle riforme che volevamo. E dal 5 dicembre a questo dovremo lavorare.

Perché il neopopulismo non è un pericolo da agitare, per imitarne le logiche e per spaventare chi vota No, ma un pericolo reale da combattere costruendo ponti e culture di unità e solidarietà. A cominciare da sinistra.