Cara ministra Carrozza,

ho nutrito qualche speranza per le sorti della nostra università quando lei ne ha assunto il dicastero. Ho immaginato che – pur all’interno di un governo che tradiva il mandato degli elettori e nell’auspicata brevità del suo mandato – potesse intervenire almeno su un aspetto limitato, ma importante della vita dei nostri atenei. Un aspetto, come chiarirò più avanti, che non comporta alcuna spesa, realizzabile in tempi brevissimi con un dispositivo di legge. L’ho sperato perché lei è donna di scienza ed è per giunta pisana, come Galilei.

E dunque rammenterà bene il motto cui si ispirava l’Accademia del Cimento: «Provando e riprovando ». Dove quel “riprovando”, come lei ben sa, non significa “provare di nuovo”. Questo in genere lo credono gli economisti neoliberisti – per lo meno quelli che hanno notizia dell’Accademia del Cimento – i quali immaginano che le loro ricette falliscono e producono effetti dannosi, perché male applicate e non perché errate in sé e alla prova dei fatti. Per tal motivo vogliono “riprovare” a imporle. Mentre il “riprovare” galileiano significa rigettare, rifiutare come erronea una ipotesi che ha mostrato la sua fallacia alla verifica sperimentale.

Ora lei aveva (e ha) la cultura e gli strumenti per cominciare a riprovare il Grande Errore, sperimentato in Europa negli ultimi 15 anni, che sta distruggendo le nostre università. E il Grande Errore – che ha certificato il suo universale fallimento nella Grande Crisi in cui ci dibattiamo – ha la sua radice nell’idea di assoggettare l’intero sistema formativo alle stringenti necessità competitive delle imprese. L’università ridotta ad azienda, secondo la perfetta esemplificazione popolare. Tale pretesa, imposta a suon di leggi, senza alcun confronto e dibattito con la comunità dei docenti e degli studenti, ha cambiato radicalmente la vita delle nostre università. Essa ha dissolto ogni preoccupazione del legislatore per la qualità dell’insegnamento e della ricerca, per il contenuto delle discipline, il modo di insegnarle (non solo nell’università, anche nella scuola), e ha trasferito tutta l’attenzione riformatrice, con una furia normativa senza precedenti, sul versante della “produttività”, dei risultati e del loro asfissiante controllo. Non più il che e il come, ma il quanto. Quanti “prodotti” ( è questo il termine che si usa ormai per nominare libri e saggi) sono stati pubblicati dai docenti, quanti laureati producono le varie Facoltà, in quanto tempo, per quale mercato del lavoro? Il mostro burocratico dell’Anvur, inefficiente e sbagliato, è figlio di questa idea. Ad essa ubbidiscono ormai da anni gli sforzi quotidiani di docenti, amministratori, studenti impegnati nel compito di rendere misurabili e giudicabili le loro prestazioni. E sotto lo stesso cielo basso si muove ora la sua trovata del Liceo breve. In Italia, in maniera particolare, la pressione del Ministero e dei rettori ha un carattere manifestamente punitivo, come ha ben mostrato Gaetano Azzariti (il manifesto, 12.11.2013). Sicché, paradosso già evidente in vari ambiti sociali, la cultura neoliberista, che critica l’intromissione dello stato e il peso delle burocrazie, opera in direzione esattamente contraria. Non c’era mai stato, nelle nostre università, tanto Stato e tanta burocrazia quanto oggi.
Lentamente il modello storico dell’università cambia, da istituzione che realizza ricerca e fornisce insegnamento, diventa il luogo in cui si fa insegnamento (sempre meno alimentato dalla ricerca) e amministrazione. Affannosa amministrazione di norme sempre nuove. La pretesa del legislatore di controllare l’economicità di ciò che si studia e di ciò che si insegna non solo ruba tempo ed energia agli studi e alla ricerca. Non solo ha portato a sottrarre risorse rilevanti alle discipline umanistiche considerate poco utili all’economia del paese. Non solo tende a impedire per l’avvenire progetti di grande respiro, che richiedono lavoro di lunga lena da parte dei giovani studiosi. Lei immagina oggi, cara ministra, un giovane Fernand Braudel che investe anni di ricerca per scrivere il suo vasto affresco sul Mediterraneo, non avendo alcuna certezza della sua stabilità, mentre i suoi colleghi vincono i concorsi pubblicando brevi articoli? Non è solo questo, che è già grave: un piano di rimpicciolimento delle figure intellettuali delle generazioni venture. Avanza l’idea perniciosa di piegare il mondo degli studi e della ricerca a una pianificazione di tipo “sovietico”, nel tentativo di stabilire non solo quali discipline, ma anche quali professioni sono da privilegiare e quali da bandire.

Il numero chiuso, gli sbarramenti che tante Facoltà innalzano per impedire le iscrizioni dei giovani, annunziano questa crescente subordinazione della formazione delle nuove generazioni alle richieste mutevoli e contingenti del mercato del lavoro. Ma qui c’è una frontiera invalicabile che l’università deve difendere. Debbo proprio ricordarle che l’università già ubbidisce, in maniera mediata, alla divisione sociale del lavoro del nostro tempo? Per quale ragione le nostre Facoltà laureano ingegneri, chimici, medici se non per rispondere con saperi specialistici al mercato del lavoro di una società industriale avanzata? Ma tra le imprese e l’università sino a oggi ha operato l’autonomia di quest’ultima. Oggi la tendenza dispiegata è di piegare le università a criteri di economicità aziendale e rozzamente produttivistici. Il modello irresistibile è quello delle imprese di ricerca biotecnologiche, quotate in borsa, che finalizzano gli studi alla produzione di brevetti e alla realizzazione di profitti. Sapere per fare danaro. Ma questa linea decreterebbe la morte del sapere libero quale finora l’abbiamo conosciuto, il taglio delle radici della nostra civiltà. E si tratta per giunta di una tendenza miope e miserabile anche sotto il profilo economico.

E’ la cultura che crea l’economia, non il contrario. Occorre capovolgere il pensiero neoliberista. Non sono le ragioni transitorie di un capitalismo selvaggio e senza regole che devono comandare gli orizzonti della ricerca. L’università non deve solo ubbidire al mercato del lavoro, lo deve anche creare. Il sapere deve inventare nuovi scenari e professioni possibili. Carlo Cattaneo, nel suo secolo (forse più lungimirante del nostro), usò una suggestiva metafora per indicare l’apporto che la scienza e il dinamismo urbano avevano dato alla sviluppo delle nostre campagne. «La nuova agricoltura – scriveva – nasce nelle città ». E’ questa oggi l’altezza della sfida. L’università non solo deve creare la “nuova economia”, deve contribuire a una idea di società possibile, perché quella che ci lascia in eredità il capitalismo tardonovecentesco è in rovina.

E allora, cara ministra, anche senza risorse lei, col concorso di tanti parlamentari, potrebbe azionare la leva capace di avviare un processo di liberazione della nostra università. Bandisca i crediti come criterio di misurazione delle discipline. Tolga dalle nostre Facoltà e dalle menti degli studenti l’ossessione dell’accumulo di esami e lezioni come mezzi finanziari per realizzare un profitto. Restituisca ai saperi la loro dignità, li rifaccia diventare Letteratura italiana, Filosofia teoretica, Antropologia culturale, Storia contemporanea… Oggi sono numeri di una banca virtuale. Favorisca il ritorno di una didattica orientata da materie fondamentali e complementari con cui gli studenti possano programmare con semplicità il loro curriculum. A molti può sembrare una richiesta minimale, soprattutto alla luce della drammatica scarsità di risorse in cui l’università è stata gettata. Non è così. Occorre strappare almeno in un punto l’ordito totalitario del pensiero unico. Da qui si può partire per cominciare a rovesciare il Grande Errore, che è prima di tutto culturale, trovare lo slancio per cancellare a poco a poco la montagna burocratica sotto cui sta soffocando il mondo degli studi. Anche così la rivendicazione per nuove risorse e investimenti in sapere può ritrovare energia e prospettiva.

Conosciamo, cara ministra, l’obiezione possibile a tale iniziativa: i crediti sono uno strumento di valutazione ormai utilizzato negli atenei d’Europa. La risposta che viene d’istinto è: non c’è alcun obbligo a imitare la stupidità sol perché essa viene praticata a scala continentale. Quella meditata dice: si possono far corrispondere ai vari insegnamenti delle numerazioni per l’interfaccia con quelli europei e il problema è risolto. Perché non dovremmo essere noi italiani a far uscire dal sonno dogmatico gli atenei d’Europa? Dopo tutto, l’università è nata da noi. Avremmo qualche ragione storica e autorevolezza per avviare la liberazione dell’università europea dall’abiezione e dalla stupidità dell’economicismo.

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