La fine dell’anno si chiude con l’amarezza dell’ennesima occasione mancata. L’uscita dal tunnel della crisi non si vede. È rimasto solo il povero Letta a pronosticare mirabolanti crescite economiche del 2% a partire dal 2015. Forse comincia a maturare un qualche pudore. L’Europa non riesce a diventare il soggetto istituzionale e politico capace di ri-assumere i princìpi costitutivi che l’hanno ispirata: Spinelli, De Gasperi e, più recentemente, Delors. Si va avanti con accordi che arrivano sempre troppo tardi, oppure che eludono il nocciolo del problema. Vedremo alle prossime elezioni europee se i partiti socialdemocratici e di sinistra (italiani) sapranno suggerire l’unica cosa seria per la sopravvivenza della stessa Europa: un bilancio pubblico autonomo di almeno il 3-5% del Pil Ue, finanziato da una imposta europea su di un’ampia base imponibile (Iva e web tax), tentando di assegnare alla Bce un ruolo e un compito pari a quello della Fed.

La fine dell’anno ci consegna l’ennesima fiducia alla legge di stabilità (inutile). Mille rivoli di spesa, di entrata, sotterfugi, quadro macroeconomico completamente sballato. Immaginare la crescita con degli avanzi primari dell’ordine di 4 punti di Pil, cioè riduzione della domanda aggregata, è un esercizio coraggioso quanto quello di Icaro di avvicinarsi al sole.

Tutti, ma proprio tutti, hanno chiesto al governo di scegliere poche cose da fare, e su di esse investire il Paese e il Parlamento. In qualche misura si aveva consapevolezza della difficoltà della situazione e, pur all’interno delle strette maglie dei vincoli europei, si chiedeva solo del sano pragmatismo. Appena eletto, il governo di larghe intese, poi di intesa, molti giornalisti si sono spinti a vedere la democrazia cristiana. Forse, ma Letta non avrebbe mai fatto parte della sinistra DC di Donat-Cattin, Martinazzoli. Le sue policy, l’incapacità di scegliere, dire tutto e il contrario di tutto, lo avvicina molto di più alla democrazia cristiana dorotea.

Sentire Confindustria sostenere che l’Italia è stata investita da una guerra non è strano. Fa clamore che non l’abbia detto prima. I sindacati erano arrivati prima, in particolare la Cgil con l’istituzione di un forum di economisti di oltre 200 persone che ha realizzato il libro bianco per il lavoro. Avendo concorso alla stesura del libro bianco, posso ben dire che l’idea di cosa fare c’è. La politica pensa ad altro: leopolde, web democracy, glocale ed altre stupidate.

Pochi lo ricordano, ma l’Italia ha accumulato un gap di crescita economica rispetto all’Europa impressionante. Non sto parlando della crisi intervenuta nel 2007 che ha bruciato 8 punti di Pil, ma del fatto che il nostro Paese cresce strutturalmente meno dell’Europa. Questo è il punto centrale della crisi. Per dare conto della profondità dell’arretratezza dell’Italia rispetto all’Europa, basta ricordare che tra il 2003 e il 2013 l’area euro è crescita del 10%, mentre l’Italia ha contratto il proprio Pil di un punto.

Confindustria inizia la sua analisi dal 2007 per evidenti interessi, ma il ritardo dell’Italia affonda nella despecializzazione della struttura produttiva, costringendo il paese ai margini del capitale europeo. Diversamente non sarebbe spiegabile il gap di produzione industriale dalla Germania di ben oltre 20 punti, che diventa ancor più grave se consideriamo i beni strumentali, che sfiora il 30%. In altre parole, l’industria italiana è stata investita dalla crisi ben prima della crisi economica internazionale.

L’effetto è quello di un progressivo impoverimento a cui poco ha potuto il bilancio pubblico. La riduzione del Pil procapite dell’Italia tra il 2001 e il 2012 è pari al 16,8%, contro una media europea del 3,6%. La Grecia, con tutto quello che è capitato, ha visto ridurre il suo Pil procapite del 13,8%. Quindi l’Italia è seduta sulle macerie di una crisi di struttura che non ha pari tra i paesi europei. Sicuramente si poteva fare molto di più con la fiscalità generale, ma alla fine non più di tanto: se il paese non cresce, non c’è reddito da tassare e distribuire. Il pareggio di bilancio rivendicato come un «grande obbiettivo» da Letta è beffardo, perché nasconde la matrice della crisi: l’economia italiana da troppo tempo non è più una economia europea. Per un po’, via privatizzazioni, ha beneficiato delle rendite, ma con le rendite non si accumula reddito.

L’effetto è devastante: un tasso di disoccupazione reale del 22%, cioè 6 milioni di persone in cerca di lavoro. A queste condizioni è «comico» il dibattito sulla disoccupazione giovanile. Al netto della «stupidità» della riforma Fornero su previdenza e mercato del lavoro, il dramma dei giovani italiani è persino più serio degli effetti della legge Fornero: la domanda di lavoro delle imprese italiane è qualitativamente troppo bassa rispetto alla formazione dei nostri ragazzi. Se importiamo tutta la tecnologia, cosa ne facciamo dei giovani che formiamo? Nulla.

Per questo sarebbe di grande utilità combinare politica economica (industriale) e sociale (riforma dello stato sociale), ma è una sfida che necessita di un punto fermo. Mi permetto di riprendere un appunto sui liberisti del mio maestro S. Ferrari, alunno di Riccardo Lombardi e già vice direttore dell’Enea: dobbiamo riconoscere che la società in cui viviamo, rappresenta un risultato della vostra preminenza pluridecennale sul piano delle politiche economiche, culturali e sociali; avete ampliato l’appartenenza al ceto proletario di quelli che una volta erano il così detto ceto medio, nel senso che viveva secondo modelli imitativi del ceto abbiente.

Mentre nei decenni precedenti una cultura progressista era riuscita a portare la classe operaia a raggiungere livelli di vita confrontabili con quelli della classe media, ora abbiamo conseguito un risultato opposto. Non solo sul piano economico, ma anche in materia di dignità e diritti. Non abbiamo la pretesa di avere la verità in tasca; sappiamo anche che sul fronte progressista sono stati compiuti molti errori. Molti di noi stanno riflettendo per evitare di ripeterli, elaborando percorsi coerenti con i valori di giustizia, libertà ed eguaglianza che ci uniscono.

A questo punto, assicurandovi la massima comprensione e il pieno rispetto umano, sentiamo tuttavia l’obbligo di chiedere una vostra disponibilità a ritirarvi in riflessione e lasciare, almeno per ora, il campo delle responsabilità politiche. Se in questa nuova funzione ritenete di avere bisogno di supporti, di scambi e di confronti, siamo ovviamente pienamente disponibili.
Un modo per dire che il problema non è solo nostro.