Merkel, Hollande, il segretario Ocse Angel Gurria, il capo del governo belga Elio Di Rupo, i leader della Ue – Barroso e Van Rompuy – ora il leader spagnolo Rajoy. Appena avuta la fiducia, Enrico Letta si è precipitato in un vortice di vertici, sotto una pioggia di numeri non buoni.
Prima il Rapporto Ocse sull’Italia ha dipinto di nero il 2013, poi la Bce ha misurato l’inefficacia della sua politica, riducendo ancora i tassi d’interesse allo 0,5% (con un’inflazione all’1,2%), ieri la Ue fotografava l’Italia del 2013: debito al 131,4% del Pil, deficit al 2,9%, recessione a -1,3%, disoccupazione verso il 12%. Nel frattempo Washington si tingeva di rosa: 165 mila nuovi posti di lavoro in aprile, disoccupazione scesa al 7,5%, Wall street a un nuovo record, il dollaro in rialzo. Servono ancora altre prove che l’austerità (in Europa) produce depressione e che la politica espansiva (negli Stati Uniti) accelera la ripresa?

Eppure i discorsi di Letta “l’europeo” sono stati tutti di retroguardia. Rassicurazioni a Berlino e Bruxelles su un deficit sotto il 3% per rispettare i vincoli europei, mentre Francia, Olanda e Spagna rompono tranquillamente la barriera. Trepidazione verso i capricci della finanza quando la politica monetaria diventa permissiva perfino a Francoforte e i tassi d’interesse sui titoli italiani potrebbero scendere significativamente. Incertezza sul quadro politico del paese, con l’umorismo involontario dell’annuncio di Barroso: «la stabilità politica sta tornando a regnare in Italia». E uguale incertezza sul quadro europeo, con i segnali di “cambio di stagione” rispetto all’austerità – tra questi anche la mossa della Bce – che non si traducono ancora in una ventata di rinnovamento delle politiche europee rispetto al gelo dei vincoli neoliberali.

Imbarazzo, infine, sulla tassazione, di fronte alla propaganda post-elettorale di Berlusconi sull’Imu da abolire, quando è addirittura il capo dell’Ocse a chiedere a Letta di «tagliare le tasse sulle imprese e sul lavoro, compensando con imposte sui consumi, su proprietà immobiliari e su emissioni di gas a effetto serra». Riuscirà il neo-viceministro Stefano Fassina a portare una linea tanto audace dentro il Consiglio dei ministri?

Qui i margini di spesa sono già contesi tra taglio dell’Imu, non-aumento dell’Iva, esodati e cassintegrati. Naturalmente, si potrebbe fare di meglio: ad esempio, con i 4 miliardi che costerebbe la cancellazione dell’Imu sulla prima casa, si potrebbero azzerare le imposte dirette per tutti i lavoratori dipendenti che guadagnano meno di mille euro al mese – 4 milioni e 300 mila contribuenti che nel 2011 hanno pagato imposte su redditi sotto i 15 mila euro. Una redistribuzione di questo tipo – con la benedizione dell’Ocse – potrebbe aiutare la ripresa, limitare la povertà, fermare l’aumento delle disuguaglianze (e perfino far recuperare un po’ dei consensi finiti ai Cinque Stelle). Ma sono forse queste preoccupazioni degne dei vertici europei?