«La fretta come cattiva consigliera è un luogo comune, certo. Di per sé, però, sarebbe già una rivoluzione di buon senso oggi». Parte così l’ultimo capitolo di Andare insieme, andare lontano del libro di Enrico Letta, in uscita il 21 aprile per i tipi di Mondadori. Il lettore viene avvertito dalla quarta di copertina, di leggere in queste riflessioni «non una memoria dei suoi dieci mesi da presidente del Consiglio, né un espediente per cercare immediate rivincite personali, ma una riflessione proiettata al futuro». Ma è difficile non vedere Renzi per esempio in chi «non rispetta la parola data».

Del resto qui, nell’ultimo capitolo, dopo aver affrontato temi cruciali dei tempi che viviamo – la crisi, i migranti, l’Europa e i suoi possibili futuri – l’ex presidente dichiara apertamente come la pensa sul «senso permanente di estemporaneità e improvvisazione» che «rende spesso casuali, esoteriche e surreali quasi, le decisioni sulle modalità di discussione». E dell’«impazienza», lui che nell’ultimo anno, dalla defenestrazione del febbraio 2014, deve essersi morso la lingua parecchie volte, prendendo in prestito le parole di Kafka, «l’impazienza è un peccato capitale. Per esso l’uomo è stato cacciato dal paradiso ed è per questo che non ci torna».

È un’affermazione decisamente poco cool nell’Italia di oggi, quella «permeata dal culto della velocità, qui da noi celebrato con una retorica a tratti sguaiata», quella del mito futurista del «marciare» a qualsiasi costo di Renzi – il riferimento è solo nostro -, ma «i velocisti col fiatone notoriamente non vanno molto lontano. Specie se la corsa è lunga». La sfida del complesso e contraddittorio contemporaneo diventa per forza, scrive Letta, «trovare un equilibrio tra i tempi dell’innovazione e quelli, necessariamente più lunghi, del fare le cose per bene, preservando i propri ’valori non negoziabili’».

Non si tratta di una banale differenza caratteriale con Renzi, ma di una rivendicazione di un tratto profondo politico e culturale che in questo momento appare fuori commercio, dalle parti di Palazzo Chigi si dice «sfigato». Come quel titolo, «Andare insieme» che, volendo, evoca la «Camminare insieme», la pastorale della strada di quello straordinario cardinale che fu Michele Pellegrino (quello che, tanto per ricordarlo, affida «la parrocchia della strada» a Luigi Ciotti) e il principio – di tante chiese laiche e cristiane, da quelle della liberazione a quella zapatista – che non c’è vero avanzamento se non quello fatto insieme agli altri. «Se vuoi correre veloce vai da solo, se vuoi andare lontano devi farlo insieme», è non casualmente l’epigrafe del libro.

Letta non entra quasi mai nella polemica politica diretta, se non su temi valoriali come quelli che ispiravano la missione umanitaria Mare Nostrum, che il suo governo volle e Renzi chiuse. E che Letta chiede di ripristinare «che gli altri paesi europei lo vogliano oppure no. Che faccia perdere voti oppure no». Per questo l’ex presidente non si sottrae a una riflessione sulle riforme in via di approvazione. «Non è restringendo il perimetro della partecipazione che si diventa più efficienti», scrive. E: «Non è concentrando il potere e riducendo i contrappesi democratici che si migliora la governance. Una buona forma di partecipazione democratica è condizione ineludibile di benessere, democrazia, sicurezza. Ecco un altro dei nostri valori non negoziabili». Una democrazia per funzionare ha bisogno di «spazi di partecipazione sostanziali e non solo formali».

La conclusione torna sulle scelte del suo governo, pure all’epoca poderosamente contestate da sinistra (memorabile la manifestazione La via maestra organizzata da quegli stessi costituzionalisti che poi da Renzi saranno definiti ’professoroni’). Quello che sarebbe potuto succedere è letteratura ucronica, fantastoria. Quello che succede oggi è sotto gli occhi di tutti. Letta è stato il presidente delle prime larghissime intese, fra Pd e Pdl, sotto la protezione intraprendente del presidente Napolitano e delle istituzioni europee, che sono poi il marchio di fuoco della legislatura ancora in corso. Ma rivendica che le ’sue’ riforme erano incentrate sul ruolo del parlamento. E anche, rispetto a oggi, rivendica «una cultura politica diversa, fondata su una visione più intransigente dei rapporti tra potere esecutivo e legislativo. Riflesso che per me si applica anche al percorso sulle riforme istituzionali che, dal mio punto di vista, il governo deve accompagnare, scandire, anche velocizzare, mai imporre. E l’Italia ha già pagato pesantemente in passato la scelta dissennata – di centrodestra, ma anche di centrosinistra, per quanto riguarda il titolo V – di fare tra il 2001 e il 2006 riforme costituzionali e poi leggi elettorali a maggioranza semplice».

Il giudizio sulle scelte del suo successore, i rischi che aprono, la critica alla cultura politica da cui provengono, c’è tutto. Espresso alla Letta, con moderazione, quel tratto che gli ha valso la damnatio memoriae oggi che a Palazzo si porta lo sberleffo, la guasconeria e il bullismo (politico). Questa moderazione non gli risparmierà il bollino di «rosicone». Ma sarà appunto il giudizio di chi per correre veloce – per andare dove, poi – rischia di non portare il paese lontano. Anzi, di portarlo indietro.