Sipario. Enrico Letta getta la spugna. Stamattina, dopo la riunione del consiglio dei ministri convocata per le 11.30, salirà al Colle per rassegnare le dimissioni. Una decisione senza colpi di scena. Sin dalle prime ore del pomeriggio la notizia della cancellazione del viaggio nel Regno unito aveva reso evidente l’imminente resa e la scelta di non partecipare alla direzione del Pd («Non sono tipo da duelli») aveva chiarito che l’«uomo delle istituzioni» non avrebbe portato il braccio di ferro alle estreme conseguenze, il voto in Parlamento.

Nella mattinata del suo ultimo giorno da premier Letta aveva rifiutato per l’ennesima volta la proposta, avanzata da una delegazione Pd formata dai capigruppo Speranza e Zanda e dal portavoce del segretario Guerini, di un’uscita concordata, con tanto di incarico di gran peso nel nuovo governo: certamente il ministero degli Esteri, secondo alcune voci addirittura quello dell’Economia. È un no gonfio di veleno, pronunciato con l’intenzione esplicita di «far emergere tutto il marciume». Poi il silenzio. Il rancore che cova dentro, Letta lo esprime solo con le battute al vetriolo con cui, di fronte al teleschermo con gli intimi, commenta la relazione di Renzi.

Nel corso del giorno più lungo, il deposto si sente più volte con Giorgio Napolitano, non solo al mattino ma anche prima, durante e dopo la direzione. È in uno di questi colloqui che il premier decide, probabilmente su consiglio dell’alto protettore, di disertare la direzione del suo fedifrago partito. Tra un colloquio telefonico e l’altro il capo dello Stato incontra Alfano, subito prima della ambigua conferenza stampa in cui il leader del Nuovo centrodestra chiarisce che non starà mai in un governo politico «di sinistra o di centrosinistra». È una sorta di avvio informale delle consultazioni. La palla, infatti, torna per l’ennesima volta nelle mani del presidente. Oggi dovrà decidere se procedere con consultazioni lampo, in modo che il governo Renzi possa decollare già nella settimana prossima, oppure se chiedere una sorta di ’parlamentarizzazione soft’ della crisi: mandare Letta in Parlamento per spiegare le sue dimissioni ma senza chiedere il “voto di sfiducia”. Una mossa dettata ufficialmente dalla necessità di rispondere in qualche modo alle opposizioni, Fi e il M5S, che reclamano un passaggio parlamentare. Al momento, l’ipotesi più probabile resta però che Letta motivi le sue dimissioni con una lettera ai presidenti delle camere.

Quel che è certo è che al presidente il cambio della guardia a palazzo Chigi non piace affatto. «Impedire che il ragazzino mandi in vacca il Paese»: così, negli uffici del Quirinale, descrivono l’occupazione e la preoccupazione del capo dello Stato in questi giorni. Non saranno certo questi i termini adoperati da Napolitano, ma la traduzione spiccia della vulgata rende bene l’idea del favore con cui re Giorgio assiste all’ascesa del “ragazzino”.

Solo chi non conosce il gergo del presidente può pensare che il suo laconico commento, «Deve decidere il Pd», equivalga a un semaforo verde concesso a cuor leggero. Al contrario, quella frasetta fa da controcanto all’indicazione precisa data a Letta: rifiutare ogni coinvolgimento nel nuovo governo, evidenziare con massima chiarezza che ad affossare il suo è stato il gruppo dirigente del Pd, però senza portare la sfida alle estreme conseguenze, il voto di fiducia delle aule parlamentari, perché altrimenti si rischierebbero le elezioni anticipate.

Il consiglio, seguito alla lettera dall’uomo che oggi sarà ex premier, risponde a una previsione e a una valutazione che chiamarle pessimistiche è dir poco. Il “ragazzino”, in altre occasioni bollato anche di «analfabetismo istituzionale», andrà a sbattere e lo farà presto. A quel punto le persone serie come Enrico Letta devono stare pronte a intervenire per salvare la situazione, come non sarebbe possibile ove prestassero la loro faccia pulita e la loro attiva opera al governo che sta per nascere e che si ritiene non andrà lontano. Quella di Giorgio Napolitano è una ritirata strategica, non una resa.

Ciò non significa, sia chiaro, che il presidente intenda mettere i bastoni tra le ruote al prossimo governo. I suoi infausti pronostici non sono una di quelle profezie destinate ad avverarsi grazie all’intervento del profeta: non sarebbe nello stile di Napolitano. Ma certo l’idea che il semestre di presidenza Ue sia nelle mani di un uomo senza alcuna esperienza di governo e di cui si fida pochissimo non gli permette di dormire sonni tranquilli. Nella migliore delle ipotesi farà il possibile per mantenere sotto controllo la politica economica del governo. Ma non è del tutto escluso neppure che tenti di rimettere tutto in discussione. Se le circostanze gli offriranno un appiglio che al momento non c’è.