È diventato un luogo comune dire che ci stiamo “ri-democristianizzando”.
Uno scioglilingua che pone alcuni interrogativi su il come e il chi. Non sul perché, visto che questo eterno ritorno avviene all’insegna del “non ci sono alternative”; quanto per mezzo secolo fu il vero punto di forza della Democrazia Cristiana D.O.P. Ora come allora, è stato lasciato campo libero agli ultimi virgulti delle parrocchie del potere (il premier Letta jr. con il suo vice Alfano, ma anche il candidato in pectore alla rifondazione mediante rottamazione Renzi); ossia la rete avvolgente della presenza cattolica nel politico e nel sociale.

Eccoli – dunque – piantare i loro paletti nella desolazione di un quadro politico che sta desertificandosi; mentre la parola “alternativa”, molto anni Settanta, si rivela l’eterna chimera: purtroppo l’Altrapolitica, tra protagonismi inconcludenti (Ingroia) e attivismi narcisistici (Grillo), non riesce ad attivare progettualità di rifondazione civile, sociale ed economica; per fortuna l’ex Cavaliere barricato nel bunker di Arcore conferma l’inevitabilità della sua uscita di scena con l’evidente schizofrenia dei messaggi che emette.

Sicché restano solo loro, i post/neo/democristiani. Forti di quella straordinaria capacità illusionistica con cui i loro padri spirituali ammansirono destre xenofobe e sinistre di lotta, affondando tutti e tutto nel calderone centrista.

In effetti, quando nel 2007 nacque il Partito Democratico dalla fusione tra gli eredi dell’Ulivo prodiano – gli ex Pci e dintorni raccolti nel Pds e i sopravvissuti della Sinistra democristiana (con l’aggiunta di qualche converso ex laico) della Margherita – qualcuno disse che, in base ai rapporti numerici tra contraenti, nella cucina della politica si stava sfornando il “pasticcio tra un cavallo e un allodola”; in cui il sapore equino avrebbe cancellato ogni altra traccia, stante la forza (seppure residuale) degli eredi del partito di Togliatti e Berlinguer .

Chi lo disse non teneva conto di due fattori: l’anagrafe, che gioca a favore dei margheriti, e la superiore capacità politica dei meno rispetto ai più.

Alla lunga questo si è verificato puntualmente: forte di antiche tecnologie del potere interiorizzate nel proprio Dna, la componente cattolica si è fatta un boccone dei cosiddetti ”giovani turchi” .

Difatti ora rimangono in campo soltanto Matteo Renzi ed Enrico Letta; politicamente due gemelli siamesi destinati all’inevitabile destino dei “fratelli coltelli”: danzano sulla stessa piastrella, sicché – per la legge dell’impenetrabilità dei corpi – uno deve per forza espellere l’altro. Impensabile un team tra loro; e – perciò – mai se ne è parlato. Ma il corpo di ballo a cui fanno entrambi riferimento per imbastire i loro show è proprio identico? Si potrebbe dire sì e no.

Sia Renzi che Letta ipotizzano la reconquista dell’elettorato finito sotto le insegne berlusconiane, invertendo lo slogan di Alcide De Gasperi «il Pd è un partito di sinistra in marcia verso il centro».

Su questo concordano; così come non paiono in grado di risolvere il problema conseguente, che neppure si pongono: come tenere agganciato l’elettorato progressista. Tema che li lascia indifferenti, vista la loro intima natura conservatrice (l’aggettivo “moderato” che tanto piace loro, in politica non significa niente. Al massimo sta a indicare un aspetto caratteriale). Forse ritengono di recuperarlo giocando sulla leva dell’illusionismo, che hanno dimostrato di manovrare con una certa perizia: il premier raccontando da due mesi la favola de “la crisi è finita”, il sindaco martellando con successo sul “rinnovamento” che si riduce a una “carta d’identità”.

Dove – invece – sembrano differenziarsi è nella scelta dei perimetri in cui giocare le rispettive partite: Renzi sceglie il campo del Pd, facendo appello all’opportunismo di un ceto dirigente interessato alla propria sopravvivenza (i vari Franceschini). Letta, diretto erede del tesoretto delle “grandi intese”, potrebbe rivolgersi alla più vasta platea dell’intera diaspora democristiana, in parte migrata nel partito berlusconiano, la cui tipologia perfetta è l’Alfano. Guarda caso, da tempo non era dato riscontrare una sintonia ai vertici di governo come quella tra premier e vice nel durare per il durare (antica arte democristiana), avviluppando nelle proprie reti le vecchie guardie dei rispettivi partiti. Operazione che riporterebbe nell’area “centrista” un po’ di ciellini (Lupi, Mauro), ma anche una pattuglia di conversi ex laici radicalsocialisti (Quagliariello, Sacconi).

Sicché: il destino di morire democristiani è certo. Il dubbio è come.