Impassibile. Come se non fossero giorni cruciali anche per il suo destino personale. Mario Draghi si è presentato così ieri mattina alla cabina di regia con i capidelegazione prima del consiglio dei ministri. Nessun accenno alla corsa al Quirinale e alla conseguente fine di questo esecutivo. «Vareremo nuove misure la settimana prossima», ha risposto ai ministri che rappresentavano le loro urgenze. «Si è lavorato come sempre con una programmazione sulle cose da fare», conferma la ministra dell’Università Maria Cristina Messa.

Che sia pretattica o solo carattere, poco importa. Il dato più rilevante è che la ricerca di un sostituto di Draghi a palazzo Chigi continua a non dare frutti. E tuttavia, senza un accordo almeno di massima sul nuovo governo, Super Mario rischia di essere impallinato nel voto segreto, anche se ci fosse un accordo tra i leader. E anche alla quarta votazione dove il quorum è di soli 505 voti.

TRA I MINISTRI NON SI PARLA d’altro. Chi andrà a palazzo Chigi?. Tutti i profili dei tecnici attualmente al governo vengono passati e ripassati al setaccio: Colao, Cartabia, Giovannini, Franco. Tutti hanno qualche handicap che frena la possibilità di un loro upgrade a palazzo Chigi. Persino Colao, che piace molto a Draghi e anche al Pd, parte azzoppato dal passato di super manager di Vodafone. «Nessun premier tecnico nella storia è mai stato un ceo di una multinazionale. Erano tutti di Bankitalia o comunque nelle istituzioni da una vita», ragione una autorevole fonte di governo.

Ecco perché il radar si è spostato fuori dall’attuale esecutivo: ieri le quotazioni di Filippo Patroni Griffi, fresco di nomina come giudice costituzionale, sono salite. Ma paga il fatto di essere stato sottosegretario alla presidenza nel governo Letta. Anche se il suo nome non dispiace a Conte, che lo avrebbe proposto nell’incontro di giovedì con Salvini.

RESTANO ALTE ANCHE LE quotazioni di Elisabetta Belloni, diplomatica, una vita alla Farnesina dove è stata molto apprezzata prima da Gentiloni e poi da Di Maio. Ma ora è alla guida dei servizi. E non si è mai visto il capo dei servizi segreti che va a palazzo Chigi.

Un puzzle così complicato da far girare la testa. Ma se quel nome non si trova i peones di tutti i partiti non si fideranno di generiche rassicurazioni. O del «patto di «legislatura» di cui ieri hanno parlato Enrico Letta e Matteo Renzi, trovandosi per una volta d’accordo. Entrambi pensano che per mandare Draghi al Colle serva un accordo di governo. E non un accordo qualsiasi: ma la prosecuzione di questo governo con innesti politici a danno di alcuni tecnici (come Roberto Cingolani e Luciana Lamorgese). Troppo complicato un reset totale dell’esecutivo che aprirebbe faglie dentro tutti i partiti. Servono interventi chirurgici.

MA L’ACCORDO ANCORA non c’è. Renzi è parso consapevole che, dopo questa esposizione di Draghi, se al Quirinale andasse una figura più debole il governo rischiererebbe di crollare. Per questo Letta lo ha invitato a ragionare solo su nomi di altissimo profilo: Draghi e Giuliano Amato. Con il dottor sottile come capo dello Stato l’attuale premier resterebbe al suo posto. Con altri è difficile. Con un colpo di mano del centrodestra insieme a Renzi su un nome divisivo il governo sarebbe già finito. L’ha detto Draghi a dicembre. Renzi lo sa.

TRA I DUE RIVALI NON C’È stato accordo sulle rose di nomi del centrodestra in caso di ritiro di Berlusconi. Magari si un nome come Frattini. Renzi è possibilista. Letta ha chiuso: «La destra non ha alcun diritto di prelazione sul Quirinale». Certo, Casini non è ascrivibile al centrodestra (nel 2018 è stato eletto col Pd) e per Letta non sarebbe facile dire di no. Ed è su questa carta che il capo di Iv continua a insistere, consapevole che Draghi potrebbe non gradire. Letta e Renzi si rivedranno domani per provare a decidere una strategia comune per le prime tre votazioni.

TORNANDO A PALAZZO CHIGI, il rottamatore parla di «una figura istituzionale che vada bene a tutti». E parla anche di «caratura politica del governo». Un modo per escludere tecnici puri alla Colao? Nel caos Rosy Bindi dà voce al terrore bipartisan di avere per la prima volta due tecnici al Colle e a palazzo Chigi: «Credo si debba lavorare per un presidente del consiglio politico e non tecnico, perché non voglio il semipresidenzialismo francese». Un punto chiave della partita: dopo il vertice di centrodestra, oggi o domani, Letta ne parlerà direttamente con Salvini.