«Non entro nella discussione congressuale ma lancio un appello affinché la discussione entri nella ferita aperta in quei quattro giorni in cui non riuscimmo ad eleggere il presidente della Repubblica. Se la discussione va oltre è un errore». Aveva fatto voto di non parlare mai del congresso Pd. Ieri il presidente del Consiglio, alla presentazione del libro Giorni bugiardi (Editori Riuniti, scritto da Chiara Geloni e Stefano Di Traglia, i due più stretti collaboratori di Bersani), per quanto si sia sforzato di parlare del suo governo «di discontinuità», reso possibile grazie al «Bersani immolato» nell’infruttuosa ricerca di una maggioranza «di cambiamento», per quanto si sia concentrato sulla ricostruzione dell’epopea bersaniana dalle primarie 2012 alle dimissioni, a un certo punto l’ha detto: la ferita dei 101 è ancora aperta, «i problemi dei giorni in cui la nostra democrazia ha sbandato sono ancora lì. Dobbiamo capire che è successo».

E sarebbe anche solo la presa d’atto di un fatto oggettivo. Se non fosse che fin qui la vicenda dei 101 è stata, nel dibattito interno del Pd, un grande rimosso, ad eccezione di Pippo Civati, l’unico candidato alle primarie che può vantare «di non avere nessuno di quei 101» fra i propri sostenitori. E se non fosse che Letta parla durante la presentazione di un libro che ha una tesi espressa direttamente da Bersani prendendo a prestito un titolo di Le Monde: «La sinistra italiana colpisce Prodi per affondare Bersani». Agli autori l’ex segretario la spiega così: «Parti non omogenee ma concomitanti del partito avevano deciso di rompere il giocattolo. Io leggo Marini e Prodi come un tutt’uno, come il tentativo di chiudere una stagione. Il voto su Prodi ha svelato che la questione Marini non era esattamente come ci era apparsa il giorno prima, non era solo la pressione della rete. Nei voti mancati a Prodi ci sono state certamente cose minori, amici di Marini amareggiati dai fatti del giorno prima, ma non è questo che fa volume. Fanno volume invece i tanti nuovi parlamentari che erano convinti di scegliere e invece sono stati sassi scagliati da una mano, magari rendendosene conto solo dopo». I 101 – è la tesi – sono un combinato disposto di dalemiani e renziani, una congiura di mani diverse modello Assassinio sull’Orient Express per affossare Bersani, dopo il fallimento del suo tentativo di governo.

Bersani, preso un periodo di riflessione, torna sul luogo del delitto. E lo fa, attraverso la ricostruzione dei suoi due collaboratori, puntando il dito non solo sul rivale interno di prima e di ora, Renzi, ma anche su D’Alema, oggi compagno di mozione congressuale. Svelando il segreto di pulcinella, e cioè che fra i «grandi elettori» di Cuperlo tira già un’aria da resa dei conti. «Davanti a noi c’è la sfida di capire se il Pd è all’altezza delle sue premesse. Noi vogliamo essere uno spazio politico o un soggetto politico?». Bersani non vuole fare come Prodi – che ha preso le distanze dal Pd divenuto frankenstein -, lui giura che lui ci mette «un raggio di sole». Ma a patto di fare luce su questa vicenda.

Traditori, complottisti involontari, affossatori volontari, dunque. Non che la storia del Pd ne abbia fatto economia. Ma l’unica autocritica che Bersani accetta è sull’amministrazione del «franone Pd». «Potevamo gestirla meglio? Sì». Ma il fatto che un segretario, lui, per due volte almeno abbia scelto per il Colle nomi non condivisi dal suo partito; il fatto di «non aver capito» chi e cosa era il suo gruppo dirigente; il fatto di aver incarnato un «noi», la «ditta», e invece di essersi invece rinchiuso in una gestione solitaria (il racconto di Geloni e Di Traglia dà conto con onestà di quali e quanti erano i dirigenti vicini: Migliavacca, Errani, Speranza, Letta e Franceschini), insomma tutto questo Bersani non lo mette sul suo conto. O forse neanche lo vede.

E non è un caso che non veda neanche gli altri «giorni bugiardi» del Pd, tanti, ben precedenti ai «quattro» del «franone» del Colle. Alla presentazione si incarica il ministro Quagliariello di svelarglieli, ritornando alla scorsa legislatura, quando «con Violante avevamo trovato l’accordo per cambiare legge elettorale. Ma c’erano uomini del mio partito e del tuo che volevano tenersi il porcellum». In molti lo avevano sospettato, ma Bersani scuote la testa: «noi volevamo testardamente una riforma. Ma sempre il centrodestra ci disse di no».