Di colpo l’accento toscano di Enrico Letta si è fatto più marcato. Qui, in questa strana campagna di Ferragosto tra i borghi da cartolina attorno a Siena, mentre l’Afghanistan brucia, l’ex ragazzo dell’Europa (che parlava inglese e francese fluenti già da adolescente) riscopre le sue radici, quella «nostra Toscana» dove si gioca il futuro politico alle supplettive per la Camera del 3 ottobre.

Camicia celeste e pantalone blu scuro, nessuna concessione al dress code estivo, il leader Pd arriva a Trequanda, paese di 1.000 abitanti, per un comizio nella piazzetta affollata. E a chi sbuffa quando lui ricorda di essere pisano, replica con un sorriso: «Meglio pisano che fiorentino». La gente applaude, ogni riferimento all’eterno rivale Matteo Renzi non è casuale, eppure Letta non smette mai i panni del ricucitore di tutto ciò che è – o dovrebbe essere – alternativo alla destra. Conte la sosterrà? «Lo spero, i rapporti tra noi sono buonissimi». E Renzi? «Mi aspetto anche il suo sostegno, Ragiono nella logica più larga possibile». Poco conta, in questa fase, che Italia Viva si sia smarcata sul ddl Zan e sul caso Durigon, dicendo no alla sfiducia voluta dal Pd.

Il boss locale di Italia Viva, il consigliere regionale Stefano Scaramelli, ha fatto capire in ogni modo che non vuole dare una mano al leader Pd. Ci sarà invece l’assessora regionale all’Agricoltura Stefania Saccardi, che il 25 agosto sarà a fianco di Letta in un incontro con gli imprenditori. E del resto lo sfidante di centrodestra è proprio un imprenditore del vino, nobile di famiglia, Tommaso Marrocchesi Marzi, che si propone di «rompere il muro rosso», anche se il sindaco di Siena è del centrodestra e i muri dell’ex Pds-Ds sono già tutti crollati. Marzi gira molto per il centro storico, cerca voti nella Siena che conta e strizza l’occhio al campanile: «I pisani non accetterebbero mai uno di Siena a rappresentarli. E così sarà per noi».

DUNQUE LETTA è tornato in battaglia, 8 anni dopo la sua ultima campagna elettorale, quella per le politiche 2013 a fianco di Bersani. Il mestiere non l’ha perso. Studia tutti i dossier di un territorio magnifico ma pieno di problemi, a partire dal Monte dei Paschi che è pura dinamite sulla sua campagna elettorale. Fa capire che sarà lui il garante di tutti i capitoli chiave, dalla banca alle infrastrutture, a partire dalle strade che mancano. «Enrico per la nostra terra è una grande opportunità», va ripetendo il segretario del Pd senese Andrea Valenti, che si dice orgoglioso di essere stato uno dei pochi non renziani eletti nel 2017 alla guida di una federazione di peso. Letta rischia di pagare gli errori di altri sul Monte? «Il rischio c’è, ma sarebbe davvero una colpa immeritata. Lui non ha mai avuto a che fare con questa vicenda, che invece tocca tutte le forze politiche».

DI CERTO TOCCA il deputato uscente Pier Carlo Padoan, che Renzi mandò nel 2018 in questo collegio e che se n’è andato alla direzione di quella Unicredit che ora rischia di mangiarsi il Monte. Letta non lo cita mai, si limita a parlare di «scelta inopportuna e inelegante», e ricorda che Padoan «è figlio di una stagione del Pd che abbiamo archiviato». E per il futuro si propone come «garante di un cambiamento radicale» rispetto agli errori della sinistra e del Pd. «In ogni caso basta con i rinvii, è ora di affrontare il toro per le corna, Siena deve restare centrale, e così il marchio, e lo Stato deve restare presente».

LETTA PARLA ALLA PIAZZA – e poi alla cena alla festa dell’Unità di Rapolano – in perfetto stile glocal: dai lavori sulla Cassia finalmente sbloccati al riscaldamento globale fino a Kabul. Oggi riunisce la segreteria, parla di una «mobilitazione nazionale» per aiutare chi vuole restare in Afghanistan e chi vuole andarsene. «Non dobbiamo lasciare sola la società afghana, l’Italia deve fare la sua parte, servono corridoi umanitari, i nostri sindaci sono pronti per l’accoglienza». Dice di più il leader Pd: «L’Europa deve parlare con una voce sola, promuovere i corridoi e vigilare sull’attuazione». Non esita a mostrarsi deluso per le parole di Biden dopo il ritiro: «Non mi è piaciuto, parole del tutto inadeguate rispetto alla gravità della situazione».

Oltre allo strappo con il presidente dem che ha sfrattato Trump – osannato fino a ieri da tutto il Pd – c’è anche l’autocritica sulle guerre umanitarie, che i dem hanno sempre appoggiato: «Dobbiamo essere onesti intellettualmente, l’esportazione della democrazia con le armi non ha funzionato. L’ha detto Angela Merkel, a noi tocca un di più di riflessione autocritica», dice al manifesto. «Ma questo non vuol dire rinunciare a difendere la libertà, le donne, i diritti civili. Dire no all’esportazione della democrazia, o all’idea che il mondo potesse diventare un grande occidente, non significa che dobbiamo girarci dall’altra parte. Abbiamo il dovere morale di dare una mano ai ragazzi afghani che hanno respirato l’ossigeno della democrazia. La fuga dell’occidente è un tradimento verso chi si è fidato di noi».

PER ORA SONDAGGI affidabili non ne circolano. Nel Pd tutti sanno che «non è un collegio blindato» e che si rischia nel Chianti, terra del candidato di Salvini. «Enrico corri nel Chianti», gli sussurrano notabili locali. Lui andrà. Come in tutti i 35 Comuni toccati da queste suppletive di inizio ottobre, «mi piace questa campagna», confida, «sto ritrovando un profondo e diretto rapporto con le persone, della politica è quello che mi era mancato di più».