In principio jazz significa danza, perché «anzitutto» lo si balla, per metà della propria centenaria esistenza, dunque gli «spettatori» (e talvolta i musicisti) ballano il jazz in coppia, a gruppi, persino individualmente; all’aperto e al chiuso, per strada e in piazza, in locali pubblici e negli alloggi privati, spesso in sale da ballo improvvisate tra gli spazi esigui di un bar scalcinato o una grande hall di un albergo di lusso, fra uno stadio di baseball o il tinello di casa. Si balla il jazz a ritmi forsennati in maniera quasi acrobatica o compulsiva oppure su tempi lenti non solo cheek to cheek, ma sensualmente avvinghiati.

Dall’excursus storico, il cake walk a fine Ottocento è la prima espressione compiuta di danza afroamericana, che però vede gli studiosi oggi ancora incerti nel riconoscere se sia il ragtime a ispirarla o viceversa. Usato anche in spettacoli itineranti come i minstrel show, il cake walk progredisce nel più veloce, diffuso, generico foxtrot, attribuito a molte particolarità danzanti e anche sulle etichette discografiche accanto ai titoli di brani jazz generici. Ad esempio il 78 giri della Brunswich delle Modern Rhythm Series n. 321 di Duke Ellington vicino a Merry-Go-Round reca appunto la dicitura fox-trot, come pure vicino sui celeberrimi ma eterogenei Mood Indigo, Caravan, Hot and Buttered e Creole Love Call; e proprio Creole Love Call diventa una scena madre del film Cotton Club (1984) di Francis Ford Coppola, il quale, fra pathos e realismo, mette in scena le esibizioni del locale di Harlem, quando le ballerine amano volteggiare mezze nude, perpetuando una tradizione osé, al centro della vita notturna di New Orleans già vent’anni prima. Infatti Jelly Roll Morton, autoproclamatosi «The Inventor of Jazz» racconta, al musicologo Alan Lomax, che all’inizio del XX secolo i migliori postriboli di Storyville offrono ai clienti facoltosi gli spettacolini di naked dance delle prostitute, accompagnate dalle jazz band spesso con Morton medesimo al pianoforte.

Negli anni Venti la forza dirompente dell’hot jazz ha quindi il péndant coreutico nel charleston, derivante, fin dal nome, da un brano di James P. Johnson, Charleston, in chiave stride piano: è ancora un ballo a due, il cui dinamismo tende comunque a svincolare la coppia dall’abbraccio per esaltare gli scatti di gamba: le gonne delle ragazze salgono addirittura al ginocchio per consentire libertà di movimento. E in quell’euforia chiamata anche «jazz crazy» i neri inventano pure il tip tap, giocato su brani hot (e dixieland) e corroborato dall’aggiunta di piccole lastre metalliche alle suole delle scarpe per accentuare i ritmi veloci; il tip tap, spesso ballato in strada dai bambini in cambio di pochi spicci, transita negli anni Trenta sui grandi schermi: insomma, nel giro di un decennio gode di un’immensa popolarità, grazie alla riproposizione virtuosistica, con graziosa leggiadria, nei musical hollywoodiani della coppia Ginger Rogers e Fred Astaire: tuttavia non ballano né cantano jazz, benché si tratti di un sound moderno divenuto ben presto standard per ogni jazzista, persino in Italia, durante il fascismo, il pezzo Cheek to Cheek, ballato e cantato da Ginger e Fred in Cappello a cilindro, diverrà sinonimo di jazz e di un modo di dire, il citucìc, riferito ai lenti all’americana.

SULLO SCHERMO

Il cinema sonoro musicale del resto è il mezzo più congeniale per come si danzano i ritmi sincopati, metafora del rinato ottimismo assieme alla swing era delle big band che, da Count Basie a Benny Goodman, fanno ballare gli interi States e poi tutto il mondo; lo swing può essere lento o veloce e il pubblico lo danza in vari modi, certamente a un livello assai spontaneo e inventivo, rispetto al banale irrigidimento scelto oggi dalle scuole di ballo; al proposito c’è una straordinaria sequenza in Helzapoppin’ (1941) di H.C. Potter, in cui è coreuticamente riassunta l’essenza della swing crazy: i domestici (neri) di una villa, in cui si allestisce una festa (per bianchi), durante i preparativi, si mettono a improvvisare sugli strumenti trovati per caso; ne nasce una convulsa jam session corroborata dall’arrivo di altro personale che si scatena in danze acrobatiche mirabilmente vertiginose. È così che tutti ballano il jazz? Non proprio: i domestici risultano Slim Gaillard e Slam Stewart, il maggiore duo swing (contornato da solisti ellingtoniani) e il personale danzante è The Harlem Congeroos, gruppo professionista specializzatosi nel lindy hop, versione plateale del coevo boogie-woogie. Già, il boogie, un nome che diventa sinonimo di libertà e democrazia, richiamando alla memoria le orchestrone al seguito delle truppe americane alla fine della Seconda guerra mondiale: dal maggio 1945 molti giovani europei lo ascoltano e lo ballano per la prima volta, ignorando che si tratta di uno stile pianistico nero degli anni Venti, ripreso dai bianchi che lo commercializzano ovunque. Non a caso In the Mood (reso celebre da Glenn Miller) è il boogie più suonato (e danzato) al mondo ancora oggi, nonché l’unico jazz in repertorio alle orchestrine di italico ballo liscio. Ma per molti In the Mood resterà nell’immaginario collettivo la colonna sonora allegra e liberatoria in risposta alla triste e malinconica Lili Marleen della discografia tedesca.

DOPOGUERRA

Nel dopoguerra americano, il boogie, sfociato poi nel rock’n’roll, viene agitato dalle vivaci cadenze di nuovi gruppi e solisti, tra jump blues e r’n’b; da allora a oggi sarà quindi la black music popolare a indicare la strada ai balli contemporanei. E grazie al cosiddetto soul jazz dei primi Sixties – archetipo il brano strumentale Green Onions di Booker T & The Mg’s, in cui riff e fraseggi all’organo Hammond si appoggiano ai virtuosismi del collega Jimmy Smith, a sua volta ispiratore dell’inglese Brian Auger – il ballo moderno diventa sempre più informale: dal twist al madison, dall’hully gully al boogaloo, fino al dirompente shake il passo è breve. E proprio lo shake diventa la base dell’incrocio fra culture bianche e nere in contesti giovanili, dove solo la musica si differenzia, perché ormai tutto, dalla new thing al rock psichedelico, dal prog al funk, dal glam alla disco, si balla in gruppo, muovendo spalle e bacino, gambe e braccia, senza regole, in maniera quasi nevrotica e disarticolata.

ANNI OTTANTA

Un ritorno all’ordine, quasi ginnico, avviene però, a cominciare dagli anni Ottanta, con la break dance, nata nei ghetti metropolitani, in simbiosi con la graffiti art e l’hip hop; è una novità assoluta che però vanta radici profonde: come il rap discende dal talkin’ blues e dalla jazz poetry, così il péndant danzereccio riprende passi, figure, salti, piroette dal charleston, dal lindy hop, dal tip tap, dal mimo teatrale. Opponendosi alla break dance (considerata troppo meccanicamente acrobatica) e alla disco music (ritenuta invece commerciale), i dj inglesi degli anni Novanta recuperano con l’acid jazz i suoni dell’hard bop e del primo rock jazz, suonandoli addirittura in discoteca come ricorda il grande batterista Art Blakey: dopo un suo concerto a Londra, viene portato a «svagarsi» in una celebre discoteca in cui rimane esterrefatto nel vedere tanti giovani ballare la musica dei suoi lp di decenni prima. Ma se in Inghilterra sale in classifica Cantaloop degli US3 impostato sul quasi omonimo pezzo di Herbie Hancock, in America i nuovi bopper sono talvolta catturati dall’hip hop, facendo nascere un ibrido come il rap jazz che un genio quale Miles Davis profetizza con l’album postumo Doo-bop (1991).

Ma per tornare al jazz postbellico, ormai contrapposto tra revivalist e modernist, ci sono eterogenei tentativi di ricollegarsi alla danza: la moda dei gruppi dixieland da San Francisco a tutta l’Europa, rilancia il charleston sia pur ballato, in Inghilterra, quasi alla stregua del boogie, che ancora spopola ad Harlem tra i giovani neri appassionati ad esempio della big band di Lionel Hampton: Malcolm X infatti racconta nella sua autobiografia di serate trascorse a scatenarsi nei grandi dancing, come si vede anche in apertura del film Malcolm (1992), a lui dedicato da Spike Lee, in una scena alquanto filologica. I jazzmen, inoltre, si avvicinano alle musiche colte: Duke Ellington con l’album The Nutcracker Suite trasforma in jazz il balletto classico Lo schiaccianoci di Ciajkovskij, Miles Davis, assistendo a Broadway a uno spettacolo di flamenco, incide l’influente Sketches of Spain mentre, per contro, una rilettura dotta di taluni balli afro e latinoamericani è sviluppata dal compositore Leonard Bernstein in On the Town, Candide e soprattutto West Side Story, ammirata sia in teatro sia al cinema.

BEATNIK

Rumba, mambo, cha cha cha trionfano a New York grazie a Dizzy Gillespie e ai complessi originali (Machito, Tito Puente, Mario Bauza, Perez Prado), che fanno ballare ogni classe sociale, condizionando l’immaginario di un’America alternativa che tra gli anni Cinquanta-Sessanta è sinonimo di beat generation; in tal senso l’icona visivo-spettacolare è il localino notturno nei seminterrati al Greenwich Village, con il maschio beatnik (sandali, jeans, dolcevita, ma anche occhiali scuri e basco blu) a suonare i bonghetti, mentre la beat girl si esibisce in calzamaglia nera in ciò che presto ispirerà le stilizzazioni note da oltre mezzo secolo in qua proprio come «jazz dance», esaltata a Broadway dal coreografo e regista Bob Fosse (autentico «rivoluzionario» del musical come nel film All that Jazz) e portata alla tv italiana prima da Don Lurio, poi da Lola Falana.

I beatnik nei loro «sotterranei», con l’aggiunta di qualche bopper, spontaneamente ballano anche qualcosa di più «selvaggio», ciò che oggi si chiamerebbe ethnic dance, in realtà un misto di suggestioni mediorientali, hawaiane, africaneggianti, condivise da tanta lounge music nel sottogenere exotica. Ma il trend è quasi generalizzato perché in effetti, in quel periodo, lo stesso Art Blakey vola in Nigeria a studiare le antiche percussioni, mentre Louis Armstrong nella tournée in Ghana è visto esibirsi in cerchio accanto a musicisti e danzatori del luogo.

Il ritorno alla Madre Africa, durante i Sixties, ha seri cultori tra solisti e gruppi free, di cui l’Arkestra di Sun Ra rielabora forme e contenuti ancestrali, con la presenza ai concerti di un vero e proprio corpo di ballo in abiti tribali. Ispirato a Sun Ra e all’Art Ensemble Of Chicago – i cui mascheramenti africani rimandano invece a una sorta di danza cerebrale – l’insieme percussionistico Odwalla, nato a Ivrea nel 1989, grazie a Massimo Barbiero, accoglie di volta in volta numerosi strumentisti indiani, subsahariani, afro e latinamericani, mentre dal vivo diversi esponenti del teatro-danza di varie nazionalità, in solo, in coppia o in gruppo, lanciano coreografie stilizzate tra etnicità e sperimentazione, in sintonia con il sound di batterie, xilofoni, tabla, marimba, conga, djembé.

E, a parte il clamoroso revival dell’electro swing, fatto proprio anche dai cultori della techno – il clip Mambo Rap di Parov Stelar mostra un giovane nero intento a esibirsi in una breakdance su ritmi al contempo meccanici e suadenti in mezzo a riff alla Count Basie, a dimostrazione di come oggi la musica può essere coreuticamente interpretata a proprio piacimento – oggi l’asse jazz-danza dal pubblico che balla si sta spostando verso ambiziosi progetti congiunti ad esempio fra improvvisazioni musicali e corporee, come già anticipato dal free sia nero (Cecil Taylor) sia europeo (John Surman) e ora presenti in una lunga serie di collaborazioni, sinestesie, progetti interdisciplinari meritevoli di ulteriori approfondimenti.

LET’S DANCE!

I rapporti tra jazz e ballo sono testimoniati mediante i linguaggi audiovisivi (film, tv, video) dalla fiction ai documentari, dai corto ai lungometraggi, mostrando come storicamente quella afroamericana sia anzitutto una musica da ballo nel senso più propositivo, coinvolgente, artistico del termine stesso, come manifestano questi dodici esempi «classici’ e contemporanei.

Il cake walk da «Treemonisha» (1911) di Scott Joplin

Il pianista famoso per i brani rag compone anche quest’opera lirica, all’epoca «censurata» per motivi razziali: nell’happy ending con un gran ballo spettacolare metaforizza antropologicamente la cultura performativa afroamericana, come si nota nell’allestimento della Houston Grand Opera (1982).

Il charleston da «Un americano a Roma» (1950) della Roman New Orleans Jazz Band

È da antologia la scena del film di Steno in cui il giovane Alberto Sordi, per accogliere festosamente gli Alleati, si traveste da Al Jolson, con il volto dipinto di nero fumo, dimenandosi al ritmo della band di Carlo Loffredo, simboleggiando l’idea del jazz quale musica (e danza) liberatoria.

Il tip tap da «Symphony in Black» (1935) di Duke Ellington

La vicenda finzionale drammaticissima di un’avvenente ballerina è contornata da cinque tip tap dancer, i quali grazie ai giochi di specchi della regia moltiplicano le immagini da cortometraggio d’avanguardia; e i virtuosismi coordinati dell’affiatato quintetto rimandano allo stile Cotton Club.

Il lindy hop da «Shine» (1933) di Louis Armstrong

Diretto a Hollywood nell’aprile 1942 da Josef Berne, il soundie, oltre la voce e la tromba di Satchmo, è fondamentale per la presenza di Nicodemus – poi grande attore comico noto come Nick Stewart – nei panni del lindy hop dancer che si burla del jazzman con acrobazie prefiguranti la break dance.

Il boogie da «Boogie Woogie Bugle Boy» (1941) delle Andrews Sisters

Già ai tempi dell’hot jazz e ancor più durante la swing era sono di moda i trii vocali femminili (persino in Italia con le sorelle olandesi Leschan, ovverosia il Trio Lescano) che alterano alle indubbie qualità canore anche discrete abilità danzerecce, soprattutto nei film, come questo, in cui è richiesta un’immagine spettacolare.

Il rock and roll da «Caldonia» (1946) di Louis Jordan

Sebbene il rock and roll diventi un fenomeno di massa otto anni dopo con Bill Haley & The Comets, questo soundie presenta non solo uno dei pezzi antesignani, ma un cantante/sassofonista che, alla stregua di Armstrong e Fats Waller, punta tutto o quasi sulla comicità, regalando anche passi di danza, profetici…

La latin dance da «Groovy Man» (1947) della Dizzy Gillespie Big Band

Ecco l’esempio di come il bebop tenta di entrare nello show business, puntando sul divertimento grazie a un leader autoironicamente istrionico, che dirige la propria orchestra, lanciandosi in qualche passo di danza, con un piglio goffo e simpatico che non abbandonerà per il resto della carriera concertistica.

Il revival da «Momma Don’t Allow» (1956) della Chris Barber Jazz Band

Il song del bluesman Cow Cow Davenport dà il titolo al documentario di Karel Reisz e Tony Richardson: il corto, tra gli atti fondativi del free cinema britannico, mostra un giovane pubblico letteralmente impazzito per il trad (dixieland) della celebre orchestrina inglese, ballandolo però a boogie.

Il duck walk in «Johnny B. Goode» (1958) di Chuck Berry

C’è una sequenza memorabile nel film Jazz in un giorno d’estate, quando alcuni solisti dixieland si mettono a improvvisare spontaneamente sui riff del brano del rocker, allora celeberrimo, mentre quest’ultimo canta, suona la chitarra e soprattutto gira in lungo e in largo il palcoscenico con il passo dell’anatra.

L’ethnic dance da «Pata Pata» (1967) di Miriam Makeba

La cantante sudafricana, in esilio negli Stati Uniti, è forse la prima artista di world music: all’Ed Sullivan Show, con altre due ballerine, oltre cantare, si esibisce castamente in una danza tribale, attenuata dall’involucro jazzy di un’antica suadente melodia, ora antesignana dell’afrobeat.

La breakdance da «Music Evolution» (1997) Buckshot Lefonque

Il gruppo del sassofonista Branford Marsalis – fratello del celebre Wynton, in lite cronica proprio sull’idea di negritudine – resta il maggiore nella storia del rap jazz, nonostante due soli album, da cui è tratto un clip postmoderno, dove sono presenti i «contorsionismi» della break dance.

L’electroswing da «Live at Rock Werchter» (2018) di Parov Stelar

In questo show dall’ultima edizione del celebre festival belga (interamente visionabile in rete) la band del dj austriaco (probabilmente il principale esponente del genere) presenta la sensuale Cleo Panther doppiamente impegnata nel canto e nella danza, fra ancheggiamenti citazionisti di passato e presente.